Con la guerra l’industria è tornata a fare affari. Molto più di prima. Tanto che in Borsa, da quando i russi hanno invaso l’Ucraina, le prime cinque aziende a livello mondiale del comparto hanno realizzato il 15% in più. Una performance che per l’italiana Leonardo, grazie ad alcuni progetti messi in campo recentemente, ha significato addirittura un più 60%. Bisogna armare l’Ucraina e gli eserciti europei devono ricostituire un arsenale impoverito dalle armi fornite a Kiev, scoprendosi inadeguati rispetto alle esigenze di una guerra convenzionale che non si combatteva in Europa dal 1945.
“È la legge della domanda e dell’offerta – spiega il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di Vertice interforze e della Brigata Folgore in numerosi teatri operativi tra cui Somalia e Kosovo -. C’è una grande domanda e l’offerta si sta facendo importante”.
Generale, il conflitto russo-ucraino ha fatto aumentare la domanda per l’industria degli armamenti, la difesa torna a essere un campo in cui bisogna investire?
Le armi fino a qualche tempo fa erano una cosa aborrita, adesso sono diventate una risorsa. Sono da sempre importanti, servono a un Paese per affermare la propria sovranità. È chiaro che quando l’idea di sovranità, come sta succedendo adesso, si sta perdendo a favore delle alleanze, dell’Unione Europea, servono ad alimentare lo sforzo bellico di altri. Il fatto che a livello mondiale ci sia un incremento è perché tutti ne hanno bisogno. Così è per gli occidentali che devono rifornire l’Ucraina, ma ne ha bisogno anche la gran parte del resto del mondo. Ne ha bisogno la Russia che le sta cercando dalla Cina, dalla Nord Corea, dall’Iran.
Il target di spesa del 2% del Pil per le armi indicato dalla Nato per i Paesi che fanno parte dell’Alleanza atlantica influirà sicuramente. È molto di più rispetto ad oggi?
Certamente sì, noi adesso siamo più o meno nell’ordine della metà, incluse le spese per i carabinieri che sono formalmente una forza armata anche se per loro il grosso delle spese riguarda l’ordine pubblico e non la difesa. È chiaro che il 2% porterebbe a un incremento importante, io dico che non è sufficiente neanche quello. Noi siamo inadempienti nei confronti di questo impegno al 2%, che non è una cosa di adesso, non è un precetto dovuto all’attualità. Come Paese Nato avremmo dovuto stanziarlo da sempre. In realtà tutte le nazioni, e soprattutto l’Italia, hanno sempre trascurato questo aspetto. Adesso che ci troviamo di fronte alla prova provata che le armi sono risorse importanti, il fatto che occorre raggiungere il 2% passa tranquillamente nell’opinione pubblica.
Ma chi sono i maggiori produttori a livello mondiale? Leonardo è un’azienda importante, ma quelle più grosse sono le americane?
Non c’è dubbio. Noi avevamo un’industria della Difesa importante: l’Oto Melara, l’Iveco, la cantieristica, Leonardo, ci distinguevamo nei componenti elettronici, nei radar, nelle radio, nei sistemi di guida. Avevamo e abbiamo delle realtà importanti che però sono state sottoimpiegate.
Per quanto riguarda l’Oto Melara si parla da tempo di una possibilità di vendita.
Appunto. Però l’autonomia della produzione di questi elementi è essenziale per la sovranità di un Paese. Perché le Forze armate, più che come strumento di difesa, servono come strumento di affermazione della sovranità: senza di esse un Paese è destinato ad essere subordinato alla volontà degli altri. Se pensiamo di comprare, in caso di esigenza, le munizioni da qualcun altro, siamo degli sciagurati: gli altri potrebbero essere nel campo avverso al nostro e poi gli strumenti non si trovano on the shelf, sull’espositore, per cui vado e mi prendo 50 carri, 3 navi, 5 aerei. Per avere queste cose ci vogliono decenni perché vanno progettate, prodotte. È meglio avere una produzione propria. Che poi ci possa essere una concertazione, un’alleanza per produrre, ad esempio, un carro europeo, di modo che le spese diminuiscano, è un conto. Però deve essere un’alleanza stretta. E infatti adesso anche il discorso delle alleanze sta un po’ cambiando.
Oltre al 2%, a spingere il mercato c’è anche la necessità di continuare a rifornire gli ucraini.
È un paradosso: il 2% è una costante da sempre, fino a quando si trattava di destinarlo alla nostra difesa abbiamo fatto spallucce, adesso che si tratta di destinare le risorse a un altro Paese passa tranquillamente come se fosse una cosa naturale. Al 2% dovevamo arrivarci prima.
Qualche analista sottolinea che la richiesta arriverà anche alla fine della guerra, quando l’Ucraina verrà armata con equipaggiamenti in uso all’Alleanza atlantica.
Sì, certo, anche questo è possibile.
Ma su quali armamenti l’Italia e l’Europa non hanno investito abbastanza?
Per quanto riguarda le forze di terra l’esigenza è quella di avere una componente corazzata congrua, tecnologicamente avanzata e quantitativamente credibile. Cento carri non sono niente, duecento carri sono pochi e questa guerra lo sta dimostrando. Ma per avere questo ci vogliono decenni, non si fa dall’oggi al domani.
In Ucraina l’artiglieria è molto usata nei combattimenti.
In Ucraina si sta combattendo in larga misura con l’artiglieria. Ci sono i missili, le armi a tiro curvo, fondamentali, a media e lunga gittata. L’artiglieria negli ultimi decenni, nelle cosiddette operazioni di pace, l’abbiamo assolutamente dimenticata. E poi c’è bisogno di munizioni e per averle, lo vediamo adesso, occorrono linee industriali che le producano. Anche queste sono strumenti tecnologicamente avanzati: un conto è farle per un fucile, quelle per l’artiglieria hanno delle spolette che sono gioielli tecnologici. Poi ci vogliono gli strumenti di comando e controllo che si basano sulle comunicazioni satellitari, utilizzano l’informatica e le reti in maniera estensiva, internet era nato come strumento di comando e controllo. Devono essere ridondanti, altrimenti basta un hacker per bloccare le comunicazioni di tutto il Paese.
(Paolo Rossetti)
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