Scenari di crisi e di guerra sempre più inquietanti e pericolosi si concretizzano di giorno in giorno. La pandemia del 2020-22 ha segnato l’inizio di una svolta storica, e un po’ alla volta cominciamo a capire cosa si intende per nuova normalità. Il primo segnale di un “cambio di paradigma” è stato lo smarrimento dei valori di pace, libertà, giustizia, progresso sociale e sviluppo dei rapporti amichevoli tra le nazioni che sono enunciati nella Dichiarazione dei diritti delle Nazioni Unite del 1948 e costituiscono il riferimento anche per la nostra Costituzione.
I conflitti si moltiplicano e sale l’impegnativa spesa per gli armamenti. Lo stesso ministro della Difesa Crosetto è stato chiaro: il quadro di sicurezza internazionale è deteriorato e dobbiamo disporre di forze armate efficienti, efficaci, rinnovate, potenziate, capaci di resistere alla possibilità di impiego prolungato. Dobbiamo affrontare “crescenti e pressanti sfide”. Bisogna rispettare gli impegni assunti in ambito Nato. Nel recente vertice di Vilnius, il requisito del 2% nel rapporto tra spese per la difesa e Pil è diventato non più un traguardo da raggiungere ma “una base di partenza”. È finita l’epoca delle missioni di pace con contingenti limitati, “un lusso che oggi l’Italia non può più permettersi”. Bisogna “prepararsi per il peggiore scenario possibile” (discorso del 7 novembre alle Commissioni Difesa di Camera e Senato sul Documento Programmatico per la Difesa).
Il secondo aspetto di caduta riguarda l’Unione Europea. Tutta presa a spingere sul Green New Deal, si è dimostrata incapace di esercitare un ruolo attivo a livello internazionale su tutti gli scenari. Costituitasi per promuovere la pace e il benessere dei suoi popoli e, sul piano internazionale, per “preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza”, la UE ha via via smarrito i suoi valori fondanti. Il cambio di paradigma si percepisce chiaramente a partire dall’anno cruciale 2020. Mentre infuriava la pandemia, è stata messa a punto la “Bussola strategica”, un piano d’azione per la sicurezza e la difesa, che consente di intervenire in modo rapido ed energico in caso di crisi, con la possibilità di attingere risorse dal fondo chiamato Strumento europeo per la pace per fornire armamenti “anche letali”. Mai accaduto prima. Approvato a marzo 2021, questo fondo è stato usato con tempistica perfetta per sostenere l’Ucraina nel 2022.
Infine la “guerra alla disinformazione” per il controllo “strategico” del web rappresenta il punto di svolta verso un cambiamento radicale che mette a rischio quella libertà conquistata dopo i regimi e le guerre del Novecento. Appena insediatasi, la Commissione von der Leyen si è messa pervicacemente al lavoro con l’obiettivo di “Plasmare il futuro digitale dell’Europa” (9 febbraio 2020), producendo una serie di atti a ritmo incalzante, dai codici di autoregolamentazione per le piattaforme online al Digital Services Act (DSA), con misure via via più stringenti, sanzioni e protocolli di crisi. In un contesto definito di “guerra ibrida” avere il controllo dell’informazione è vitale. Stampa e Tv, come sappiamo, sono già efficacemente sotto controllo. Ora tutto si gioca nel web, decantato alla sua nascita come una piazza di libertà.
Prima del DSA, le forme di oscuramento o rimozione di contenuti online erano praticate dalle piattaforme in base ad algoritmi attivati su pressione politica diretta o indiretta (i codici di autoregolamentazione), come ammesso da Zuckerberg, da Mask e dalla stessa UE, che durante l’emergenza sanitaria ha avuto continui scambi con i responsabili delle piattaforme per “promuovere contenuti autorevoli”, e “smontare le notizie false” o “contenuti dannosi”. Poi si è passati a “monitorare” la guerra in Ucraina. Adesso la preoccupazione riguarda le prossime elezioni europee, naturalmente per “proteggere i cittadini”. Mancano diversi mesi ma già vediamo che crescono di giorno in giorno i casi di chiusura di canali ritenuti di “disinformazione”, in barba al principio della libertà di espressione contenuto nella Carta dei diritti fondamentali, che vale la pena ripetere: “Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera” (art. 11).
Col DSA il cambio di paradigma è sostanziale. La disinformazione, non meglio definita, viene di fatto messa sullo stesso piano dei contenuti illegali e considerata una minaccia per la tenuta democratica e per i beni pubblici, quali la tutela della salute, dell’ambiente e della sicurezza. Il campo è indeterminato e vastissimo, tutto potrebbe essere considerato una minaccia. Oggi la UE ha gli strumenti per intervenire in maniera ancora più incisiva, attraverso la “moderazione dei contenuti” e la cooperazione con i “segnalatori attendibili”. Le grandi piattaforme devono adeguarsi o pagare pesanti sanzioni (vedi la querelle in corso fra i vertici UE e Elon Musk, proprietario di X).
Sono previsti anche specifici protocolli di crisi per attivare una risposta rapida in circostanze “eccezionali”, cioè conflitti armati, atti di terrorismo, catastrofi naturali e pandemie (qualsiasi pretesto è buono). Continuano a ripeterci che siamo entrati nell’era delle pandemie ed è quasi tutto pronto: l’OMS sta per centralizzare tutti i poteri in materia a livello sovranazionale e gli strumenti digitali di controllo sono tutti predisposti. È in dirittura d’arrivo anche il portafoglio digitale (EuDi Wallet) che conterrà tutti i nostri dati personali, bancari e sanitari. Con questo il cerchio si chiude, perché, come è già stato rilevato, potrebbe essere usato come il green pass nel 2021-22, cioè limitando la libertà. Insomma tutto è pronto per i peggiori scenari possibili, dagli armamenti, al controllo dell’informazione, al controllo delle persone. Con la scusa di “proteggere i nostri valori e la nostra democrazia”, ci stiamo mettendo sopra la pietra tombale.
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