Nella storia delle democrazie consolidate, quelle di lunga e affermata tradizione, è sempre esistito quello che è stato battezzato come “quarto potere”, quello cioè della stampa libera che, secondo la vulgata anglosassone, veniva chiamato anche “wachdog”, cioè una sorta di cane da guardia che smaschera gli errori o le malefatte degli altri poteri su cui è basata una democrazia.
Oggi questo termine inglese viene usato per un videogioco e si è in fondo dimenticato anche “Quarto potere”, che è il titolo di un grande film dell’allora giovane Orson Welles, addirittura nel 1941.
Un altro celebre film del 1976, di Sidney Lumet, illustrava in modo drammatico il “Quinto potere”, che si identifica con la televisione, con il potere informativo prevalente del video che ti raggiunge in casa davanti alla minestra.
Entrambi questi film avvertivano sui limiti, gli imbrogli, le falsità, gli interessi economici, le battaglie di audience e di diffusione del potere dell’informazione. Si potrebbe citare al proposito, anche un altro film che parla delle contraddizioni nel mondo dell’informazione: L’ultima minaccia di Richard Brooks del 1952, con un grande Humphrey Bogart che risponde al telefono con una frase, diventata celebre, a chi è riuscito a smascherare nei suoi intrighi: “È la stampa, bellezza!”
In sostanza questo mondo dell’informazione, questo “potere” è stato criticato anche dove ha avuto una tradizione più solida e accertata.
Ma, in fondo, è anche questo un tratto distintivo delle democrazie, delle società aperte, che sono grandiose anche nella loro imperfezione, che a volte aiutano a comprendere e a volte confondono volutamente, rivelando così che in fondo la verità e la capacità critica di un Paese democratico si formano sempre con passione e fatica, nonostante i depistaggi, perché “la democrazia ha uno stomaco di ferro che riesce a digerire tutto”, come dicevano i grandi antifascisti non comunisti, nonostante quello che ti mettono nella testa e nella pancia, nonostante le imperfezioni, le volute imprecisioni e invenzioni.
Questa lunga premessa serve solo a spiegare la confusione, la squallida parodia della “guerra dell’informazione” a cui stiamo oggi assistendo particolarmente in Italia.
L’editore libero è stata quasi sempre un’utopia (ci pensò il ras Roberto Farinacci a “liquidare” Alfredo Frassati e Luigi Albertini alla Stampa e al Corriere) e oggi è quasi dimenticata, in modo tale che la disinformazione o “la rissa da bar” è ritornata a livelli di guardia in occasione della guerra d’invasione della Russia in Ucraina.
Per gli italiani, a parte le testimonianze degli inviati sul campo che vengono ascoltati brevemente, la guerra della Russia contro l’Ucraina appare ormai come un gigantesco talk-show, che si avvale cinicamente anche delle brevi testimonianze di questi bravi inviati sul campo. Ma quello che sembra contare di più è, a seconda dei canali televisivi o dei giornali che fanno il “tifo” per una parte o l’altra, un confronto urlato tra il pacifista innovatore o “ripescato”, quando militava nello stesso partito internazionale di Vladimir Putin, e chi sostiene prima di tutto il leader ucraino Volodymyr Zelensky e poi gli aiuti che i Paesi occidentali forniscono al governo di Kiev.
Pochi ragionano, anche bene, sugli errori dell’Occidente e su quelli di Mosca, mentre i pacifisti si scatenano contro i “raggiri” mai ben spiegati della Nato.
La “rissa” programmata dovrebbe assicurare, nella mente degli organizzatori, uno share di prim’ordine, ma alla fine, chissà perché, vince sempre Striscia la notizia o la partita di calcio o anche la telenovela. Basta consultare gli ascolti il giorno dopo. E poi, nonostante gli acuti sondaggisti che abbiamo, gli italiani alla fine non riescono neppure a capire bene chi “fa la guerra” e perché, chi tira le fila dietro al gioco, chi fa la guerra “per procura”.
L’intervista al delirio è diventata un “cult”. Basta non replicare e lasciare parlare. Così il ministro degli Esteri russo può rimasticare e aggiornare le tesi della polizia zarista con I protocolli dei Savi di Sion, cioè che erano gli ebrei i maggiori persecutori degli ebrei e quindi Adolf Hitler diventa di origine ebrea.
Il problema è che gli scoop della tv italiana fanno il giro del mondo per scemenza e insipienza. Qualche tempo fa, un canale televisivo, attraverso un suo “specialista”, ha dedicato trasmissioni alla fuga di Hitler dal bunker di Berlino, alla sua sopravvivenza alla guerra e ai suoi successivi complotti: era la tesi di un grande “democratico al contrario” come Iosif Stalin e a cui alcuni babbioni hanno sempre creduto. Naturalmente lo “specialista” storico si è dimenticato di ricordare questo particolare.
Forse non è noto che nella classifica del Word Press Freedom Index (il misuratore mondiale della libertà di informazione) l’Italia occupa il 58esimo posto, venendo dopo anche il Gambia e il Suriname. I Paesi presi in considerazione sono 180 e gli ultimi tre posti sono occupati da Eritrea, Iran e Corea del Nord. La Russia di Putin occupa il 155esimo posto.
Ma probabilmente, per alcuni nostri “pensatori” questo deve essere frutto di una manovra della Nato. Vi è da aggiungere che la situazione si è aggravata, ma anche ai tempi della “prima repubblica”, quando i giornali si vendevano e si leggevano, in classifica eravamo sempre dietro alla Turchia. Insomma una tradizione non proprio esemplare. Eppure i giornalisti italiani erano cresciuti negli anni Settanta all’ombra della “libertà e oggettività di informazione”. Una falsità assoluta che veniva dagli ambienti sindacali del Corriere della Sera. Quando qualcuno si ribellò a questa ipocrisia si prese le pallottole delle Brigate Rosse in testa.
Finito il terrorismo, ordine e Associazione nazionale della stampa ritornarono a essere una sorta di “compagnia di giro” con il vezzo di auto-censurarsi a seconda delle circostanze politiche, oppure a cercare un protagonismo basato su fantasie indimostrabili o peggio ancora su scambi ravvicinati con altri “poteri”.
La sinergia stampa-magistratura in altra epoca, fortunatamente con sempre meno adepti, era una specialità tipicamente italiana.
In questi anni, con la politica latitante, la finanza dominante, i giornali sempre meno venduti, emergono i talk-show televisivi, che sfornano protagonisti improvvisati e un’approssimazione di argomenti tanto ideologici quanto inutili a una corretta informazione o anche controinformazione con la spiegazione di fatti complessi e drammatici.
Oggi c’è la guerra, per due anni c’è stato il Covid. Per mesi sulla pandemia si sono esibiti scienziati l’un contro l’altro armati. Dalla televisione, con abiti sempre più accurati, fino ai testi accumulati e invenduti in libreria. C’è ancora chi ha nostalgia di alcuni professori severi e di altri rassicuranti. Chissà se torneranno di moda?
Ma la guerra è stato un fatto più sconvolgente. La tragedia della guerra spiegata sommariamente a puntate quotidiane, ridotta a parodia di un dramma terrificante di cui non si riesce a comprendere bene le ragioni e si è investiti solo da opinioni “in libertà” che ormai non convincono quasi nessuno.
Alla fine ci si trova nella desolazione di un’informazione zoppicante, figlia di una democrazia che sta zoppicando troppo e da troppo tempo.
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