L’inflazione negli Stati Uniti a settembre è rimasta stabile al 3,7% su base annua, ma rispetto ad agosto è salita dello 0,4%, lievemente più delle attese (+0,3%). Il dato è stato diffuso ieri, dopo che mercoledì erano stati resi noti anche i verbali dell’ultima riunione del Fomc della Fed, che lasciano intravvedere la possibilità di un nuovo rialzo dei tassi. Ieri sono stati pubblicati anche i verbali dell’ultima riunione del Consiglio direttivo della Bce. Intanto incombe sempre la minaccia di un’escalation della guerra tra Israele e Hamas. Abbiamo fatto il punto con l’economista Domenico Lombardi, direttore del Policy Observatory della Luiss ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale.
Come commenta il dato relativo all’inflazione Usa di settembre?
Lo scorso mese l’inflazione è aumentata dello 0,4% equivalente al 3,7% nell’arco dei dodici mesi a settembre. Il rialzo dei prezzi negli Stati Uniti si va ulteriormente ridimensionando poiché ad agosto la variazione rispetto al mese precedente era stata dello 0,6%. Tuttavia, il rallentamento è più graduale del previsto, dal momento che le attese erano dello 0,3% su base mensile ovvero il 3,7% nei precedenti dodici mesi. Per quanto riguarda la variazione dell’inflazione core, al netto quindi delle componenti più volatili, essa è aumentata dello 0,3% o 4,1% nei dodici mesi precedenti. La variazione mensile è stata analoga a quella registrata il mese precedente, mentre la variazione nei precedenti dodici mesi era stata pari al 4,3%. Anche in questo caso, l’indicazione che si ricava è di una assai graduale, ma persistente, stabilizzazione di questo importante indicatore.
Cosa ci può dire questo dato rispetto alle future mosse della Fed, tenendo conto anche dei verbali dell’ultima riunione del Fomc diffusi mercoledì?
A fronte di una graduale stabilizzazione del quadro inflativo, i tassi di interesse sono aumentati nelle passate settimane. Questa volta l’incremento non riflette tanto la variazione attesa di aumenti nei tassi di intervento o quella dell’inflazione, quanto un aumento dei tassi di mercato in relazione al deterioramento delle variabili della finanza pubblica. Inoltre, il Quantitative tightening della Fed di circa 100 miliardi al mese dallo scorso giugno comincia a far sentire i suoi effetti. Infine, il deficit fiscale per il 2023 è del 7% in proporzione al Pil, un dato particolarmente elevato se si considera che l’economia non è in recessione. In tale contesto, l’attesa è che la Fed lasci i tassi di intervento invariati.
Cosa si può dire, invece, sulle future mosse della Bce rispetto al quadro che emerge dagli Usa e al contenuto dei verbali dell’ultima riunione del Consiglio direttivo?
Il quadro congiunturale dell’Eurozona e degli Stati Uniti si va divaricando, come riconosciuto nel resoconto dell’ultima riunione del Consiglio direttivo della Bce tenutasi lo scorso settembre. Nell’Eurozona, in particolare, la Bce registrava con preoccupazione l’aumento nelle aspettative di inflazione di medio periodo che si erano manifestate sino a settembre. In contrasto, giudicava che l’impatto del deterioramento nelle condizioni finanziarie sul Pil fosse di breve periodo o comunque non tale da evitare un ulteriore rialzo dei tassi, come poi è avvenuto.
Quanto quello che sta accedendo in Medio Oriente può incidere sulle decisioni di Fed e Bce?
L’attacco orribile subito da Israele comporta nell’immediato una maggiore incertezza sull’evoluzione della congiuntura mondiale. Se l’Iran, poi, venisse coinvolto nel conflitto, la conseguenza sarebbe verosimilmente una crisi petrolifera con contraccolpi sull’inflazione e sull’attività economica. Nel complesso, al fine di valutare compiutamente le conseguenze di un nuovo, inatteso conflitto, le banche centrali dell’Eurozona e degli Stati Uniti potrebbero, a maggior ragione, valutare di posporre qualsiasi ulteriore decisione nella prossima riunione.
Per l’Italia un allargamento e un inasprimento del conflitto potrebbero rappresentare un ostacolo per raggiungere la crescita programmata nella Nadef, che già è più elevata rispetto ad altre stime nazionali e internazionali?
Per l’Italia il quadro congiunturale si complica ulteriormente mentre cresce verosimilmente l’avversione al rischio dei mercati. A maggior ragione, occorre perseguire una postura particolarmente cauta nella politica fiscale, anche se l’aggravarsi del quadro potrà indurre le Autorità europee a una maggiore flessibilità nell’applicazione del Patto di stabilità, se reintrodotto il prossimo anno.
(Lorenzo Torrisi)
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