Le prime mosse dell’Amministrazione Biden hanno fatto segnare un netto deterioramento dei rapporti tra Occidente e Cina: lo si è visto in maniera plateale al vertice Usa-Cina di Anchorage e soprattutto con le sanzioni che l’America, in un inedito coordinamento con Canada, Gran Bretagna e Unione Europea, ha inflitto a Pechino per la repressione della minoranza uigura. Considerando anche l’immediata reazione di Pechino, pare proprio di essere di fronte alle prime battute di quella che anche Francesco Sisci, professore di geopolitica alla Luiss e alla Renmin University of China di Pechino, definisce una nuova guerra fredda. In questa intervista, l’ex corrispondente de La Stampa da Pechino inquadra questo momento storico peculiare fornendocene le coordinate essenziali.
È sorpreso, prof. Sisci, da questo botta e risposta di sanzioni e controsanzioni tra Usa-Canada-Uk-Ue e Cina?
Assolutamente no, questa cosa era in fieri da anni. Purtroppo quello che è successo è che l’Italia, distratta dalle questioni interne, ha smesso di guardare alla politica estera e in questo senso ha pericolosamente perso un punto di riferimento essenziale per la politica interna. Se noi non abbiamo chiaro l’orizzonte esterno qualunque scelta di politica interna potrebbe rivelarsi sbagliata. Quindi questo sfondo c’era da tempo e adesso si è manifestato con chiarezza.
Hanno ragione gli americani e gli altri quando parlano di “genocidio” degli uiguri o è uno slogan eccessivo?
Io in questo caso dividerei: c’è un fenomeno dietro al quale c’è una questione più pesante. Il fenomeno è la questione degli uiguri; l’essenza è invece una cosa molto più articolata e consiste in una insoddisfazione da parte dell’Occidente per una serie di questioni con la Cina. Sul fenomeno di per sé personalmente non sono d’accordo con la retorica del “genocidio”; non si stanno sterminando le persone e nessuno le manda nelle camere a gas. C’è invece un problema di gestione non ideale di una realtà molto complessa; dietro le apparenze, ripeto, c’è l’insoddisfazione più generale per la gestione da parte della Cina di una serie di temi quali la situazione di Hong Kong, le questioni commerciali, la repressione dei diritti umani, quella che il Segretario di stato degli Usa Blinken ha definito la “coercizione” degli alleati americani della regione, l’intervento in Birmania, la presenza nel Mar Cinese meridionale fino alla questione di Taiwan. Questa è l’essenza del fenomeno. La questione degli uiguri è semplicemente uno schermo, perché di per sé è controversa; nel senso che i cinesi non sono dei santi ma forse nemmeno gli uiguri lo sono.
Come ritiene possibile che l’atteggiamento dell’Ue verso la Cina si sia modificato così velocemente ad appena tre mesi dalla firma dell’accordo bilaterale sugli investimenti noto come Cai?
Il problema è che i cinesi, ma forse anche noi, hanno una visione parziale dell’Unione Europea, che è fatta non solo da molti Stati ma anche di molti strati. Abbiamo la Commissione, formata da persone indicate dai governi nazionali; e poi c’è l’Europarlamento, che è più rappresentativo perché eletto direttamente. Esiste cioè una dialettica molto complicata tra Commissione e Parlamento. Era naturale che la Commissione, che rappresenta gli interessi dei governi nazionali, spinta anche da una tecnocrazia che guarda a interessi commerciali e industriali, abbia pensato di sottoscrivere il Cai. D’altro canto il Parlamento, che ha un rapporto diretto con gli elettori, è più attento ai valori ideali, come appunti i diritti umani e la democrazia. La Cina avrebbe dovuto navigare tra le due posizioni e invece, reagendo molto duramente con le sanzioni, sta spingendo la Commissione dalla parte del Parlamento.
Come ha dimostrato il vertice di Anchorage, i rapporti tra Usa e Cina sono addirittura peggiorati dopo l’uscita di scena di Donald Trump. Che differenza rileva sull’approccio di Trump e quello di Biden?
C’è in effetti una differenza. Io credo che Trump, alla fin fine, cercasse un accordo commerciale: lui non voleva lo scontro. Quando non ha raggiunto l’accordo si è sentito perso e l’Amministrazione e l’intero apparato sono andati alla ricerca di un nuovo modo di intavolare il rapporto. Questo nuovo modo ha trovato concretizzazione nell’approccio della nuova Amministrazione che abbiamo visto in azione ad Anchorage. L’America ora non cerca più un accordo commerciale ma mette sul piatto tutte le questioni che per quarant’anni ha tenuto nel cassetto. Prospetta poi una specie di grande alleanza globale che si confronti in maniera avversaria con la Cina. Prima di Anchorage Blinken è stato in Giappone e nella Corea del Sud e al ritorno ha presieduto il vertice della Nato, dove ha parlato di rilancio dell’alleanza. C’è dunque una strategia di ampio raggio e di lungo termine degli Usa verso la Cina.
Siamo alle prime battute di una nuova guerra fredda?
Direi proprio di sì, anche se questa seconda guerra fredda è diversa dalla prima. Però c’è sicuramente questo afflato di lungo termine e ad ampio raggio.
(Marco Orioles)
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