Davanti all’orrore indicibile della strage del 7 ottobre si può soltanto dire che nulla la giustifica. Gli errori politici in questi 75 anni di guerra israelo-palestinese sono stati da entrambe le parti, ma per costruire la pace bisogna eliminare l’odio che porta a considerare normale uccidere bambini e innocenti. Occorre mettere da parte gli estremismi e segnare una svolta nella vita politica di entrambi i contendenti, con un governo di unità nazionale per i palestinesi e un esecutivo che eviti le posizioni della destra più estrema in Israele. Nel contesto attuale Netanyahu, che in questi anni ha provocato l’indebolimento di forze armate e servizi segreti, potrebbe avere le ore contate come primo ministro. Per cercare di cambiare rotta e di non far parlare solamente le armi, spiega Mario Giro, ex viceministro degli Esteri nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, è necessario iniziare a fare opera di convincimento presso Paesi intermediari che possono parlare con Hamas, come Qatar e Turchia, perché la inducano a riconoscere l’esistenza dello Stato di Israele.



Intanto, però, da Gaza arrivano notizie che possono ostacolare l’avvio del dialogo: il bombardamento sull’ospedale con centinaia di morti (500 per alcune fonti) certo non può favorire la de-escalation chiesta da più parti. La propaganda è già all’opera: per Hamas è opera degli israeliani, per Israele è un razzo palestinese di cui è fallito il lancio. Certo non un buon viatico per l’arrivo del presidente americano Joe Biden. E neanche per ottenere almeno una tregua e quella liberazione dei rapiti (almeno i civili) che Hamas sarebbe disposta a concedere in cambio della fine dei bombardamenti su Gaza.



L’attacco di Hamas e la conseguente reazione di Israele hanno riacceso le “tifoserie” di una parte o dell’altra: al di là della contrapposizione tra Israele e Palestina è possibile fare un’analisi obiettiva di ragioni e torti di entrambe le parti?

In questi 75 anni di guerra se la situazione non si è risolta vuol dire che ci sono stati gravi errori da parte di tutti, anche della comunità internazionale, quindi anche nostri. Però sento che in Italia non c’è un bipolarismo dell’odio: un po’ di tifoseria esiste anche da noi ma con un limite. A differenza di altri Paesi, come la Francia, tra destra e sinistra non ci siamo divisi su quello che è successo. Per gli italiani è stato un orrore e basta. Mai può risultare accettabile o risolvere qualcosa la morte di civili innocenti e dei bambini. Come anche i rapimenti. Mai. Sento che gli italiani lo intuiscono. Ecco che allora si possono dire tante cose sugli errori del governo di Israele di estrema destra, sulla questione dei coloni e sul diritto dei palestinesi ad avere una terra e uno stato, posizione quest’ultima che condividono tutti, come ha affermato anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Ma questo non può in nessun caso giustificare la morte di civili innocenti. C’è un livello che non si può accettare. Che Hamas si faccia scudo dei rapiti e della popolazione di Gaza è tristemente evidente, ma si tratta di metodi che non porteranno a nulla.



Siamo giunti a uno dei livelli più alti dello scontro, in cui parlano soprattutto le armi: cosa
bisognerebbe fare, invece, per dare una possibilità alla pace?

Il livello dello scontro è terribile, come vediamo anche dalle immagini dell’ospedale bombardato a Gaza. Davanti a tali atrocità bisogna riuscire a restare lucidi. Dobbiamo chiedere agli amici di Hamas, cioè al Qatar, alla Turchia e in parte l’Egitto, di parlare con loro perché li convincano che la prima cosa da fare è riconoscere il diritto di esistere allo Stato di Israele. Altrimenti non c’è nessun dialogo possibile. Poi occorre chiedere la liberazione dei rapiti e intavolare subito una dialogo. Anche i palestinesi, come dice in un’intervista su Repubblica Mustafa Barghouti, componente del Consiglio legislativo palestinese, devono puntare su un governo di unità nazionale, che coivolga Hamas ma anche le altre forze, e che sia un esecutivo per la pace e non per la guerra. Da parte israeliana bisogna che il parlamento ridiscuta della colonizzazione che c’è stata in questi anni, tenendo presente la soluzione dei due Stati. Israele è una grande democrazia, anche molto autocritica: saprà andare oltre questa estrema destra che l’ha resa un Paese diverso da quello che è in realtà.

Le divisioni ci sono da entrambe le parti: Israele, soprattutto dopo la lunga protesta contro la riforma della giustizia di Netanyahu, è spaccato in due; ma anche in Palestina Hamas non rappresenta certo tutta la popolazione. Bisogna agire su questo elemento?

Entrambe le parti sono divise e le estreme di entrambe sono concentrate sul bipolarismo dell’odio. Anche se chiaramente l’azione di Hamas del 7 ottobre va oltre tutto questo, è un’azione incommensurabile in atrocità. E penso che almeno gli italiani lo abbiano intuito. Le parti ragionevoli e moderate di entrambi devono prevalere e rimettersi attorno a un tavolo.

La situazione è incancrenita da decenni di conflitto e quindi ogni cambiamento sarà difficile. Ma quale deve essere il primo passo da compiere sulla strada della distensione?

Ci vorranno mesi e forse anni per riprendere il cammino abbandonato nel 1994 con gli accordi di Oslo. E c’è urgenza nel risolvere la crisi perché guerra chiama guerra: l’Ucraina, il Nagorno Karabakh, ora di nuovo Israele e Palestina, cos’altro ci dobbiamo aspettare? Il primo passo resta quello di intervenire sugli alleati di Hamas perché la moderino.

C’è un ruolo che possono avere le istituzioni internazionali?

Il ruolo dell’Onu è molto importante perché è l’unico luogo accettabile per discutere, ammesso come forum da tutte le grandi potenze come la Cina, la Russia, gli Usa e così via. Per arrivarci però bisogna fare un percorso: la soluzione non è automatica e siamo ancora lontani.

Non ci sono troppi interessi da mettere d’accordo?

Gli interessi ci sono in ogni aspetto della vita, figurarsi se parliamo di geopolitica: l’energia, il petrolio, la sicurezza, la vendita di armi, la terra, le risorse. Se vogliamo perderci nel mare dei dettagli lo possiamo anche fare, gli analisti lo devono fare. L’essenziale, tuttavia, è che i due popoli si parlino e si riconoscano in qualche modo, perché gli estremisti delle due parti fanno come se l’altra parte non dovesse esistere.

Ci sono esperienze in cui palestinesi e israeliani sono riusciti ad avviare un dialogo, a trovare una modalità di convivenza civile tra loro?

Ci sono tanti piccoli esempi nella società civile, ma qui occorre che si muova la politica. E in questo campo non c’è ancora nulla.

Per avviare il dialogo in Israele dovrebbe cambiare il governo Netanyahu? 

Gli israeliani sanno essere molto più autocritici di noi. E in questo senso faranno certamente una profonda analisi degli errori commessi. Lo faranno da loro stessi, che poi è la cosa migliore. Hanno anche bisogno dei loro amici e devono ascoltarli. Netanyahu è già molto criticato all’interno. Faccio una facile previsione: fra pochi mesi Netanyahu non sarà più primo ministro. È già stato commissariato nel nuovo governo dal gabinetto. È già stato messo in mora dall’esercito israeliano. Purtroppo ha commesso molti gravissimi errori, indebolendo l’esercito e lo Shin Bet, i servizi segreti interni, cacciando molti ufficiali che non la pensavano come lui.

Anche sul fronte palestinese c’è chi punta il dito su Hamas e ne critica l’operato? Occorre una
svolta politica anche per loro?

Sì. Innanzitutto c’è l’Anp (l’Autorità nazionale palestinese ndr) che cerca di riprendersi anche se la vedo piuttosto discreditata agli occhi del popolo perché troppo corrotta. Tuttavia ha una forza di controllo poliziesco molto organizzata in Cisgiordania. Lavora con gli israeliani, cosa che non piace ai palestinesi: se dovessero votare in questo momento darebbero ad Hamas la maggioranza assoluta in Cisgiordania. Potrebbe anche accadere che a Gaza Hamas riscuota sempre meno simpatie, mentre ne guadagni nella West Bank. Penso che in questo campo non possa prevalere un attore rispetto all’altro, ma, come dice Mustafa Barghouti, la cosa migliore sarebbe che si vada verso un governo unitario. E ricordiamo che c’è un altro Barghouti, il fratello Marwan, che è in carcere in Israele da tempo, condannato a cinque ergastoli, che però è l’unico che ha la reputazione giusta per guidare un governo di questo genere. Marwan è considerato incorruttibile e severo, non ha mai rinnegato quello che ha fatto. Tuttavia è laico e non ideologicamente estremista. Potrebbe diventare l’ago della bilancia del governo unitario.

(Paolo Rossetti)

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