Nella notte tra il 6 e il 7 ottobre, dalla striscia di Gaza l’organizzazione terroristica Hamas ha sferrato un attacco senza precedenti al territorio israeliano, violandolo via terra e via aria. È la seconda volta che Tel Aviv vede sgretolarsi il proprio mito dell’invincibilità, dopo che nel 1973 Egitto e Siria attaccarono a sorpresa Israele durante la festività dello Yom Kippur. Tuttavia, quanto accaduto gli scorsi giorni rappresenta una novità, dal momento che a portare a termine tale iniziativa è stato un attore non statuale che da quando è nato (1987) ha sempre “sbattuto” contro il sistema di difesa nemico nei propri tentativi offensivi.
La crisi in corso è destinata a rimanere nei libri di storia e a durare nel tempo; non avrà una soluzione semplice e immediata, se non altro perché rappresenta l’ultimo tassello di una questione che va avanti dal 1917, cioè dalla Dichiarazione Balfour. Ma non si avrà una soluzione semplice, anche perché l’episodio mostra, in maniera più palese che mai, che quanto accade in Terra Santa non è più – e da tempo – un affare che riguarda Israele, Palestina o tantomeno attori regionali. Anche questo scenario rientra in quello più ampio circa la competizione tra superpotenze, come Usa, Cina e Russia. Il confronto tra Washington e Pechino è quello destinato a dirci se il XXI secolo confermerà la leadership americana del globo (almeno in parte) o se il nuovo ordine mondiale sarà a guida multipolare, ovvero con ampio spazio per l’influenza cinese ma anche quella di nuovi protagonisti su base regionale, come per esempio Arabia Saudita e Turchia.
Certamente ciò è più evidente nella questione Taiwan, ma quello che sta accadendo in altri scenari rimanda alla competizione tra le due potenze (più la Russia) per cui attori regionali si sentono legittimati a forzare la mano in situazioni di crisi piuttosto che cercare un compromesso. Questo è vero in Africa, dove la serie di colpi di Stato avvenuti dal 2021 ad oggi – in particolare nella zona saheliana – ha portato alla fine della presenza di un attore storico nella regione: la Francia. Non vi è dubbio che vi fossero tensioni tra i governi di questi Paesi e Parigi, ma fino a qualche anno fa si era sempre trovato il modo di arrivare ad un “accomodamento” tra le parti. Di recente invece ciò non è accaduto, complice anche, tra le altre cose, la longa manus di Mosca che, attraverso le Private Military Companies (in particolar modo, la Wagner) ha spinto per l’espulsione francese da questi Paesi.
Anche nello scenario caucasico si possono osservare fenomeni simili. La recente offensiva militare in Nagorno-Karabakh da parte dell’Azerbaijan ha seguito logiche del tutto comparabili alle dinamiche sopra descritte. Quella tra Yerevan e Baku è infatti una rivalità che per anni non ha toccato la dimensione militare, fino allo scoppio del conflitto nel 2020, conclusosi con un cessate il fuoco mediato dalla Russia. La guerra in Ucraina ha certamente consumato risorse umane, economiche e politiche di Mosca; Baku ha approfittato della situazione, dapprima affamando la popolazione armena dell’Artsakh attraverso il blocco del corridoio di Lachin, per poi sferrare un vero e proprio attacco militare contro una popolazione inerme. L’iniziativa ha certamente avuto il semaforo verde da parte di Ankara, ansiosa di erodere territorio ed influenza proprio alla Russia. Senza il via libera turco, difficilmente gli azeri avrebbero preso questa iniziativa, poiché privi di uno sponsor regionale che li proteggesse.
Il Medio Oriente, quindi, è solo l’ultimo scenario in cui la rivalità tra grandi potenze ha determinato le condizioni per un improvviso inasprirsi di strategie volte al ribaltamento degli equilibri regionali. L’illusione che si potesse raggiungere una pax cinese, come auspicato tra Arabia Saudita ed Iran nei colloqui tenuti a luglio 2023 e favoriti appunto dalla Cina, è durata giusto il tempo di un battito di ciglia. Pechino è rivale strategico di Washington; in questa logica, la Cina è interessata a mettere in difficoltà gli Stati Uniti ovunque sia possibile, e così agisce. A contribuire alla crisi di Gaza concorrono una infinità di altri elementi, uno dei quali è la crisi interna che sta vivendo Israele da anni, culminata con i fatti degli ultimi mesi. Il governo del primo ministro Netanyahu ha infatti formulato una proposta di legge che prevede un emendamento a una delle leggi fondamentali di Israele, volta a eliminare il potere della Corte Suprema di annullare le decisioni o le nomine del governo sulla base della loro “irragionevolezza”. Questa riforma della giustizia mina fortemente l’autonomia del potere giudiziario, tanto che decine di migliaia di persone sono scese in piazza da luglio per protestare contro la proposta.
L’iniziativa dell’esecutivo rappresenta il culmine di una crisi politica interna che ha visto entrare in maggioranza parlamentare e nel governo partiti di estrema destra – raccolti sotto la lista “Sionismo Religioso” – caratterizzati da posizioni radicali sul conflitto israelo-palestinese e sul futuro dei territori occupati, sul rapporto tra Stato e religione e sui poteri della Corte Suprema. Si capisce dunque quanto il vile attacco di Hamas derivi anche da una situazione interna a Gaza sempre più estrema, portata avanti da politiche israeliane che hanno fatto di questo fazzoletto di territorio la prigione a cielo aperto più grande del mondo.
L’ex capo dello Shin Bet israeliano Ami Ayalon ha parlato a Le Figaro di ciò che è andato storto in Israele: “Gran parte della responsabilità è ovviamente del governo Netanyahu. I comandanti di tutte le organizzazioni di sicurezza hanno detto [a Netanyahu] che la politica condotta era sbagliata e che era ovvio che sarebbe stata usata dai nostri nemici. Hanno percepito un momento di grande divisione intorno alla crisi causata nel Paese dalla riforma della giustizia. Naturalmente i politici non ci hanno ascoltato. Soprattutto per quanto riguarda gli avvertimenti sulla Cisgiordania. Il governo israeliano ha fatto di tutto per far sì che Fatah e l’Autorità Palestinese non fossero partner, ed in questo modo hanno dato potere ad Hamas. Sì, non abbiamo altra scelta che distruggere le Brigate Ezzeddine al-Qassam. Ma dovremmo cambiare totalmente la nostra politica per trovarci un partner tra i palestinesi. Dobbiamo dire fin dall’inizio che la nostra guerra non è contro il popolo palestinese. La nostra guerra è solo contro l’ala militare di Hamas. Prima ancora di attaccare, dovremmo dire che vogliamo creare una realtà in cui parliamo con i palestinesi che accettano le iniziative di pace e vogliono discutere con noi la realtà di due Stati. Ma non credo che nessun governo israeliano accetterà di farlo oggi. Eppure, se non lo facciamo, assisteremo a una recrudescenza della violenza. Persino oggi, Israele si rifiuta di ammettere che i palestinesi sono una nazione. Lo sviluppo economico non è sufficiente per loro. Vogliono la libertà, vogliono la fine dell’occupazione”.
Queste parole sembrano dare consistenza alla linea interpretativa del Segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin, il quale ha fortemente condannato l’attacco, ricordando però che bisogna cercare di trovare condizioni che permettano di vivere nella giustizia, e quindi trovare un modo di risolvere l’annoso e tragico problema delle relazioni tra palestinesi e israeliani che si basi sul riconoscimento delle ragioni. Solo questo potrà assicurare una pace stabile e una convivenza pacifica e fruttuosa tra i due popoli.
L’Unione Europea, in questo senso, avrebbe molto da dire, essendo la trasposizione dell’unico progetto politico che nella storia ha saputo mettere assieme vincitori e vinti. Bene hanno fatto quindi le istituzioni europee a ribadire la propria vicinanza ad Israele, al suo popolo e alla necessità storica della sua esistenza. Ma forse, sarebbe meglio se i protagonisti della sua diplomazia – non ho il coraggio di chiamarla politica estera – andassero oltre la partecipazione ai vernissage e prendessero iniziative concrete nello scacchiere euromediterraneo, nella certezza che fu di Aldo Moro che “l’Europa non è nel Mediterraneo; l’Europa è il Mediterraneo”.
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