L’azione di un solitario attentatore a Bruxelles, poi catturato e ucciso dalla polizia belga, ripropone il tema del terrorismo islamico e di una sua rinascita in Europa. Il tragico rilancio della guerra tra Israele e Palestina ha infatti fornito un contesto favorevole alle organizzazioni del terrore islamico per incitare all’odio, cercando di spingere alla violenza singoli estremisti attivati semplicemente dalla propaganda via internet. Non è più il tempo dei grandi attentati, spiega Massimo Introvigne, sociologo fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, ma è possibile che altri seguano le orme del lupo solitario che ha agito nella capitale belga.



Hamas, da parte sua, pur avendo come obiettivo delle sue azioni Israele e non l’Occidente intero, con il suo attacco ha fornito il contesto per risvegliare tutto il mondo fondamentalista. L’organizzazione palestinese filoiraniana, che ha contatti anche con la Cina da cui riceve armi, si pone, diversamente da altri gruppi, anche come partito politico che viene riconosciuto da qualche Paese. Al Qaeda e Isis, invece, ormai senza basi logistiche, non sono più in grado di pensare a grandi azioni come quella dell’11 settembre. E allora ripiegano su una strategia di basso profilo che tende ad attivare sul web i fanatici pronti a uccidere in Occidente.



L’attacco di Hamas e la risposta di Israele fanno tornare d’attualità il tema dello scontro di civiltà tra l’Occidente e l’islam. La ripresa degli attentati in Europa significa che il problema che avevamo accantonato è ancora lì in tutta la sua gravità?

Naturalmente la situazione è una conseguenza della guerra in Palestina: l’episodio bellico rinfocola tutta una serie di agitazioni che si erano un po’ sopite perché il contrasto di polizia era stato efficace. Ma nessun contrasto di polizia riesce ad eliminare singoli individui che possono avere aspirazioni terroristiche. Non siamo di fronte a nessuna cellula o organizzazione in grado di compiere attentati come quelli di qualche anno fa a discoteche o stazioni della metropolitana, ma a singoli eccitati dalla propaganda via internet, che fanno attentati da lupi solitari.



Quanto è difficile tenere sotto controllo il fenomeno?

Nonostante la prevenzione sia molto migliorata, non si riesce evidentemente a controllare tutti i singoli estremisti che ci sono in giro. In Italia il sistema funziona meglio che altrove, perché la nostra sorveglianza, riconosciuta anche in sede internazionale, non si affida all’elettronica, ma alla presenza da parte delle forze dell’ordine in locali e quartieri frequentati da immigrati. Un sistema di protezione superiore a quello belga o francese, però neanche il nostro è totalmente a prova del singolo individuo che, senza dirlo a nessuno, una mattina esce di casa e ammazza qualcuno.

Ma c’è un legame specifico degli attentatori solitari con le organizzazioni terroristiche?

In realtà sì. Oggi né Al Qaeda o l’Isis sono in grado di organizzare un 11 settembre e quindi operano attraverso internet, eccitando singoli che poi commettono attentati. Questo fu già teorizzato dall’Isis dopo che perse il controllo delle sue basi territoriali in Iraq e in Siria. Non ci possiamo aspettare grossi attentati ma che, attraverso il deep web o l’internet sommerso, ci siano nel mondo diverse migliaia di persone in contatto con centrali terroristiche senza che queste centrali neppure li conoscano. Vengono lanciati messaggi nell’etere sapendo che c’è chi li ascolta e che tra questi c’è qualcuno che poi passa all’atto. La responsabilità delle organizzazioni terroristiche c’è, perché sono loro che inviano messaggi alla cieca che poi vengono raccolti da qualcuno.

Organizzazioni come Al Qaeda e Isis hanno ridotto la loro attività perché sono state prese di mira dai servizi di mezzo mondo? Hanno ancora finanziamenti?

Hanno ridotto la loro attività perché non hanno più delle basi territoriali. L’Afghanistan in questo momento sta cercando di giocare un altro ruolo. Il capo dei talebani sta a Pechino: gioca la carta dell’alleanza con Russia e Cina, però deve essere un Paese rispettabile e non che organizza accoltellamenti. L’Isis aveva uno Stato suo. Per operazioni come quella dell’11 settembre, ma anche per i grandi attentati a Parigi, bisogna addestrare la gente da qualche parte. In questo momento ci sono delle sacche utilizzate dai terroristi in Somalia o in Mali e in altri Paesi, ma non si possono paragonare all’Emirato dell’Isis o all’alleanza stretta che Osama Bin Laden aveva con i talebani in Afghanistan. Da quando hanno perso le basi, insomma, le organizzazioni terroristiche hanno iniziato questa strategia, inaugurata dall’Isis, di andare a cercare nell’oceano di internet i lupi solitari che possano commettere qualche attentato.

La strategia per battere Hamas potrebbe essere la stessa? Togliergli Gaza come base e quindi perlomeno depotenziare l’organizzazione come è stato fatto con Al Qaeda dopo l’11 settembre?

Hamas ha sempre organizzato attentati contro Israele o contro obiettivi israeliani in giro per il mondo. È un partito politico che controlla un governo, quello di Gaza, che ha tutta una serie di legami internazionali con l’Iran, con il Qatar, in realtà anche con la Cina, anche se se ne parla poco volentieri. Alcune grandi potenze lo legittimano, questo anche se da Usa, Europa e Israele viene considerata un’organizzazione terroristica. Hamas come Hezbollah è un partito politico riconosciuto come autorità che controlla territori. Sono diversi rispetto allo Stato islamico, che nessuno riconosceva.

Qual è il legame di Hamas con la Cina?

In questi giorni è uscita la notizia che la Cina ha fornito armi. Gli israeliani, che pure tengono ad avere buoni rapporti con Pechino, hanno anche pubblicato fotografie di armi cinesi, con tanto di scritte in lingua originale, che hanno ritrovato dalle parti di Hamas. Poi la Cina usa la massima di Mao Tse Tung e cioè che il nemico del mio nemico magari non è mio amico, ma va comunque tenuto in vita. In tutti i comunicati cinesi, tra l’altro, si depreca la violenza contro i civili da qualunque parte venga, però non si fa mai il nome di Hamas. C’è una condanna generica della violenza ma non una condanna di Hamas.

Resta, comunque, il problema di come porsi di fronte all’islam, della difficoltà che l’Occidente ha ad aprire un dialogo. Come si può superare questo ostacolo?

C’è stato un grande sforzo da questo punto di vista con diversi attori: uno è la Santa Sede e l’altro gli Usa. Proprio gli Stati Uniti dall’epoca di Trump hanno cercato di superare quello che personalmente ho sempre considerato un errore, cioè la ricerca del musulmano moderato, che esiste in alcuni Paesi ma non in altre parti del mondo, dalla penisola arabica all’Africa. Il musulmano moderato che crede nei valori dell’illuminismo e nella Rivoluzione francese, come mi è capitato di dire in qualche audizione in Parlamento, lo si trova principalmente in due posti: o nelle università occidentali, in esilio, o al cimitero.

Adesso, quindi, chi si è scelto come interlocutore?

È stata superata l’idea che l’Occidente debba trattare solo con i musulmani moderati, a mio avviso una prospettiva miope e senza possibilità di successo. E quindi si è cominciato a dire che si tratta con i musulmani che ci sono, purché siano disponibili a rinunciare al terrorismo come arma di lotta. In questo modo ci sono state tutta una serie di aperture che hanno visto il Papa andare ad Abu Dhabi e Trump fare da mediatore per gli accordi di Abramo con una serie di Paesi arabi non moderati.

All’Iran, però, questo non va giù.

L’Iran vuole mantenere una contrapposizione dura e pura con l’Occidente, visto come satanico. Si è rafforzato con la guerra in Ucraina, essendo il più grande produttore mondiale di droni, di cui i russi hanno bisogno. Ha ulteriormente chiuso la possibilità di diventare parte di questo dialogo, reprimendo nel sangue qualunque piccola richiesta di evoluzione del regime da parte di donne e di studenti. Il dialogo con l’islam non moderato, che pure vuole le donne velate, non vuole l’uguaglianza tra gli uomini e le donne, ma che nello stesso tempo è disponibile a rinunciare al terrorismo, va avanti. Un esempio tipico è l’Arabia Saudita. Chi vuole far fallire questo dialogo è l’Iran, e lo ha fatto muovendo le sue pedine mentre l’attenzione era tutta concentrata sull’Ucraina.

Cosa dobbiamo aspettarci ora: nuove azioni da parte di lupi solitari o anche una ripresa del terrorismo organizzato?

Non credo che tutto quello che succede in Palestina faccia risorgere lo Stato islamico o Al Qaeda. Se vedremo grossi attentati credo che la mano sarà quella dei servizi iraniani.

(Paolo Rossetti)

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