Israele elimina Nasrallah e non si ferma. Il bilancio dei bombardamenti è gravissimo: secondo il ministero della Salute libanese, sono state uccise più di mille persone dall’inizio delle operazioni dell’IDF e più di 6mila sono rimaste ferite, un milione gli sfollati.

C’è una logica in tutto questo, e secondo Pasquale De Sena, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Palermo e già presidente della SIDI, è la volontà di Israele di terrorizzare chiunque intenda sostenere il principio di autodeterminazione del popolo palestinese. Una gravissima responsabilità politica che si aggiunge alle violazioni del diritto internazionale commesse da Israele.



Sotto il profilo militare l’uccisione di Nasrallah è uno strike di successo. Come commenta questa “eliminazione extragiudiziale” da parte di Israele?

L’eliminazione di Nasrallah fa parte di un’operazione militare più ampia, che non esisteva al momento delle prime eliminazioni di quadri di Hezbollah con la procurata esplosione dei cercapersone. Una operazione che non può definirsi di legittima difesa preventiva, non ammessa dal diritto internazionale generale e dalla Carta Onu e difficilmente riferibile alle reazioni armate rispetto a enti non statali, come Hezbollah.



Israele ha colpito Hezbollah anche in passato. Cosa cambia?

In passato le azioni israeliane contro Hezbollah sono state ritenute internazionalmente lecite in quanto volte a esercitare un diritto di auto-protezione (self protection) da parte di Israele, dinanzi all’incapacità del Libano di impedire gli attacchi di Hezbollah. Se anche volessimo accedere a questa tesi, le uccisioni collaterali di civili resterebbero gravemente illecite.

Dunque quella di Israele non è legittima difesa preventiva. Cosa si potrebbe dire delle operazioni israeliane?

Aggiungerei che le azioni odierne si inquadrano nella violazione continuata del principio di autodeterminazione dei popoli ai danni del popolo palestinese.



Chi è stato eliminato? Un terrorista o un difensore dei palestinesi?

La commissione di atti terroristici da parte di Hezbollah non è in discussione; così come neppure è in discussione che Hezbollah sia intervenuto a sostegno della lotta armata del popolo palestinese, che è internazionalmente consentita a titolo di resistenza allo Stato occupante. Il diritto internazionale, pur permettendo un sostegno logistico e finanziario ai movimenti di liberazione nazionale, vieta a Stati terzi di appoggiarli militarmente, se non in modo indiretto. La norma vale, per l’appunto, per gli Stati terzi, non per altri enti.

Dunque non vale per Hezbollah.

Hezbollah non è uno Stato, ma un gruppo armato che appoggia la legittima lotta di liberazione palestinese, cooperando direttamente a quest’ultima. Naturalmente esso si assume le responsabilità fattuali derivanti dalla partecipazione a un conflitto armato, nonché quelle giuridiche – gravissime – in caso di commissione di crimini di guerra o crimini contro l’umanità, nei quali rientrano anche atti terroristici.

Israele ha violato la sovranità libanese? 

Non c’è dubbio che Israele è intervenuto militarmente nel territorio di uno Stato sovrano, commettendo atti in principio contrari al divieto dell’uso della forza, pur senza intenzione di invadere o annettere il Libano. Naturalmente, se seguisse un’operazione di terra e un’occupazione di territorio libanese, saremmo di fronte anche a una violazione dell’integrità territoriale.

Netanyahu le direbbe di essere intervenuto in Libano per difendere il Paese da chi vuole distruggerlo.

Oggi la questione consiste appunto nel chiedersi se Israele abbia titolo per intervenire militarmente in un territorio statale altrui per reprimere azioni militari – talora terroristiche – compiute ai propri danni. Come le dicevo, secondo alcuni la risposta è positiva. Ma non si tratta di una tesi pacifica, né essa esclude il rispetto delle norme in tema di protezione dei civili, chiaramente già violate dalle azioni più recenti. Ma vorrei ribadire un punto fondamentale.

Prego. 

Non si può trascurare che ciò che avviene si inserisce nel quadro di una violazione gravissima e continuata del principio di autodeterminazione dei popoli.

Allarghiamo la prospettiva. Che cosa emerge a suo avviso da quanto vediamo accadere da un anno a questa parte?

Emerge una circostanza molto semplice. Israele, che fino al 7 ottobre 2023 ha violato il principio di autodeterminazione dei popoli, secondo la Corte internazionale di giustizia (ICJ) anche tramite la segregazione razziale dei palestinesi – a Gaza come altrove –, continua a violarlo con l’uso di mezzi militari. La circostanza che la reazione ai crimini del 7 Ottobre sia andata costantemente al di là delle norme del diritto internazionale umanitario – colpendo duramente e soprattutto terrorizzando la popolazione palestinese di Gaza – implica chiaramente una conseguenza.

E cioè?

Implica che qualsiasi capacità di resistenza all’occupazione, in particolare di carattere militare, sia distrutta. Ciò non significa, è ovvio, che i singoli atti compiuti non siano illeciti – o criminosi – anche singolarmente considerati; basti pensare che la ICJ ha considerato plausibile la contestazione di genocidio mossa a Israele dal Sudafrica. E basti aggiungere che la stessa Corte penale internazionale (CPI) sta indagando per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma va sottolineato con forza che tutto questo rientra nella risoluta e continuata negazione, da parte israeliana, dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Uno dei pochi principi inderogabili del diritto internazionale, dal quale scaturiscono obblighi “erga omnes” e la cui violazione comporta conseguenze aggravate rispetto a quelle prodotte dagli illeciti comuni.

In altri termini, lei sta parlando di una sorta di azione terroristica finalizzata ad ammonire chiunque intenda farsi fautore dell’autodeterminazione palestinese?

Al di là dei morti e delle distruzioni, considerate in sé e per sé, mi pare che proprio questo sia il messaggio complessivo inviato alla popolazione palestinese.

Ma allora qual è l’obiettivo di Israele?

Nella migliore delle ipotesi, io credo che sia quello di “guidare” il processo di autodeterminazione del popolo palestinese, decidendo pure quali siano i territori sui quali quest’ultima potrà effettivamente esercitarsi. Un’autodeterminazione… etero-determinata, una contraddizione logica ancor prima che giuridica. Lo dimostra, tra l’altro, la perdurante indifferenza all’attuazione dei principi affermati nel parere della ICJ del luglio scorso, proprio a proposito della situazione palestinese e degli obblighi imposti a Israele del diritto internazionale.

Che ruolo riveste il parere della ICJ?

La Corte ha certificato obblighi che derivano in capo a Israele già dal diritto internazionale generale; obblighi dotati della particolare forza formale che ho già indicato poco sopra.

Qui si presenta un’obiezione molto facile.

Lo so, ma è irrilevante osservare che il parere, così come la successiva risoluzione dell’Assemblea generale – approvata a larga maggioranza, con l’astensione dell’Italia –, che lo ha incorporato non sono dotati di efficacia vincolante. Ribadisco: quegli obblighi non fanno che certificare ciò che già è prescritto dal diritto internazionale generale, tramite principi consuetudinari pacificamente riconosciuti come validi ed efficaci.

Cosa resta della “soluzione” due popoli due Stati? 

La ripetizione acritica di questa formula, per la realizzazione della quale è stato fatto poco o nulla da parte della comunità internazionale ben prima del 7 Ottobre, dimostra due cose. Purtroppo entrambe tragiche e vergognose.

Sarebbero?

Da un lato attesta la cattiva coscienza di chi la effettua, dinanzi allo sfacelo di Gaza, agli abissi di dolore e di odio, alla non coincidente volontà israeliana. Dall’altro sembra indicare che, oggettivamente, ci sono voluti i crimini contro l’umanità del 7 Ottobre perché la formula venisse recuperata.

Chi deve o può fare che cosa?

Non ho dubbi al riguardo: gli Stati terzi rispetto al conflitto. Gli obblighi derivanti dal divieto di genocidio, dal divieto di violazioni gravi, massicce e sistematiche dei diritti umani, dal principio di autodeterminazione dei popoli sono, come ho detto, obblighi inderogabili ed erga omnes. Essi sono tutti contemplati dal diritto internazionale generale, oltre che da alcune convenzioni internazionali rilevanti: per esempio, quella sul genocidio del 1948 e quelle sul diritto internazionale umanitario del 1949, di cui gli Stati europei e l’Italia sono parti.

Cosa dovrebbero fare gli Stati in forza di questi obblighi?

Sono tenuti non solo a disconoscere le situazioni illecite in cui si traducono le violazioni in corso, ma anche a non prestare alcun aiuto o assistenza a chi le ponga in essere.

Cioè Israele.

Ad oggi, però, solo pochi Stati europei, fra i quali non rientra l’Italia, hanno riconosciuto lo Stato di Palestina. Una decisione che – seppure non vincolata – esprime il disconoscimento della situazione illecita, creata dall’occupazione israeliana e sancita come tale dal parere della ICJ. Inoltre gran parte degli Stati occidentali, in primo luogo gli Stati Uniti, continuano a fornire supporto militare e finanziario al governo di Israele, malgrado – val la pena ripeterlo – il rischio del verificarsi di un genocidio, il ricorrere di violazioni massicce e generalizzate del diritto umanitario, la persistente e crescente occupazione israeliana di territori palestinesi.

La comunità internazionale è corresponsabile?

Sì. Va detto forte e chiaro: ai crimini contro l’umanità di Hamas e ai crimini commessi dalle truppe israeliane – oggetto di ben due procedimenti giudiziari internazionali, rispettivamente dinanzi alla ICJ e alla CPI – si aggiungono oggi violazioni del diritto internazionale meno eclatanti, ma non meno produttive di effetti tragici, commesse da larga parte della comunità internazionale.

Cosa si sentirebbe di dire a riguardo della posizione dell’Italia?

Nel nostro caso la commissione di tali violazioni si traduce anche nella mancata attuazione di obblighi costituzionali da parte dello Stato. L’art. 10 della Costituzione impone agli organi statali il rispetto del diritto internazionale generale.

(Federico Ferraù)

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