La potenza di fuoco manifestata da Israele in Libano è impressionante: tonnellate di bombe dichiaratamente lanciate contro obiettivi di Hezbollah che finiscono inevitabilmente (Gaza insegna) per raggiungere i civili. L’IDF avrebbe cercato anche di prendere di mira il successore di Nasrallah, la cui sorte resta incerta. Le forze armate di Tel Aviv, spiega Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia, collaboratore di Avvenire, stanno sfruttando le elezioni presidenziali USA, che condizionano gli americani, per sferrare quanti più attacchi possibile sul Paese confinante, nel tentativo di fare a Hezbollah quello che è stato fatto ad Hamas nella Striscia. Fino a che non ci sarà il prossimo presidente, insomma, è difficile che Washington prenda in mano la situazione, mettendo almeno dei paletti alle azioni israeliane.



Sulla situazione del Libano, intanto, pesa la debolezza delle istituzioni. L’esercito, che dovrebbe difendere il territorio nazionale, non è in grado di farlo, lasciando così a Hezbollah la possibilità di rivendicare il suo ruolo nel sud. Da due anni manca ormai un presidente. Ora si riparla di convocare il parlamento, ma è difficile garantire i lavori mentre Israele continua a bombardare. Intanto la guida suprema dell’Iran, Khamenei, al funerale di Nasrallah legittima l’attacco del 7 ottobre e annuncia che la resistenza continua.



Secondo alcune indiscrezioni, prima di venire ucciso dall’IDF, Nasrallah avrebbe dato il suo assenso al cessate il fuoco con Israele. Una ricostruzione credibile?

No, non era tipo da compromessi del genere. Aveva tenuto duro per un anno, dicendo che avrebbe terminato gli attacchi nel momento in cui sarebbe finita la guerra a Gaza. Ho dei dubbi anche sulle fonti, sono solo delle speculazioni.

Gli israeliani starebbero tentando di far fare la stessa fine al suo probabile successore, Hashem Safi a-Din?

Si tratta, se possibile, di un personaggio ancora più duro di Nasrallah, anche se non ci sono falchi e colombe in Hezbollah, tutti la pensano allo stesso modo. È sposato con la figlia di Soleimani, il generale dei pasdaran iraniani ucciso in Iraq nel 2020. Nel raid degli israeliani nella periferia sud di Beirut, che sarebbe stato progettato per colpirlo, comunque, sono state lanciate 73 tonnellate di bombe. Ci vuole poco a immaginare il danno che può provocare un intervento del genere in quartieri dove i palazzi sono attaccati uno all’altro. La periferia sud non ha giardini pubblici o spazi aperti: se miri un palazzo, ne butti giù altri dieci.



Anche stavolta nessuna precauzione, insomma, per evitare per quanto possibile danni ai civili?

È l’ultima delle preoccupazioni di Israele. È appena uscito un elenco di una trentina di località da evacuare in Libano, dopo che c’era già stato un elenco di altre 26. Tra l’altro, si trovano tutte molto al di là del fiume Litani, ben oltre la linea dei 5-7 chilometri che l’IDF vorrebbe “ripulire”. La terminologia usata per descrivere l’azione israeliana, intanto, la dipinge come un intervento limitato, nessuno parla di invasione.

Gli attacchi, d’altra parte, sono arrivati fino a Beirut.

Infatti. Questo conferma che l’obiettivo dichiarato non è quello vero.

Qual è allora il vero obiettivo di Israele attaccando il Libano?

Gli israeliani vogliono ripetere l’esperienza di Gaza: smantellare Hezbollah. Pensano che questo sia il momento propizio perché gli americani sono occupati con le elezioni e non possono fare pressioni. Alla fine, sembra che Biden stia pregando Netanyahu di contenersi, anche se non credo a queste scenate: paiono il poliziotto buono e quello cattivo. Israele pensa di avere l’occasione di far fuori Hezbollah e di cambiare l’assetto geopolitico della regione, indebolendo Teheran. Dicono che dovranno rispondere all’Iran, ma l’attacco di Teheran è già la risposta a un’iniziativa israeliana, così non si finisce più. Eppure, viene annunciata un’operazione a breve, contro i siti nucleari o le piattaforme petrolifere.

Fanno fatica a eliminare Hamas, anche se gli hanno inferto grosse perdite; possono riuscirci con Hezbollah?

In una sola incursione Israele ha perso otto soldati e ha rimediato 50 feriti. Avevano appena fatto pochi metri al di là del confine. Quando si tratta di operazioni di terra, Hezbollah conosce molto meglio il teatro su cui deve combattere.

Intanto anche l’esercito libanese ha risposto al fuoco. È un elemento che può cambiare il quadro?

Ci sono stati due morti tra i soldati libanesi, uno in una postazione militare, un altro mentre soccorreva con la Croce Rossa i feriti. In tre giorni ci sono stati 40 soccorritori uccisi. L’esercito libanese ha replicato al fuoco, mi chiedo però se non è il caso che intervenga semplicemente perché il territorio nazionale è attaccato. In questo modo i libanesi potrebbero affidare all’esercito il ruolo di difendere il territorio ed Hezbollah potrebbe riconsegnare le sue armi. Ma bisogna dimostrare di essere capaci di difendere il Paese, altrimenti si fa come la polizia di Abu Mazen in Cisgiordania, che assiste alle incursioni israeliane.

Il Libano potrebbe giocare la carta dell’esercito per cercare di ottenere una tregua?

È l’ultima carta che il Paese può giocare. Le milizie in Libano sono nate perché l’esercito non era in grado di gestire l’ordine pubblico e di resistere alle continue violazioni del territorio nazionale da parte degli israeliani. Hezbollah ha giustificato la sua presenza dicendo di difendere il territorio proprio perché l’esercito non era armato. Il che è vero: gli americani sono i primi finanziatori dell’esercito libanese, che ha circa 80mila effettivi, pagano una parte degli stipendi, ma non forniscono armamenti adeguati, non al punto tale da poter opporre una resistenza vera e propria. Così però l’esercito diventa poco più di una polizia.

I militari rappresentano, anche se minimo, un punto di riferimento?

Il comandante in capo, Joseph Aoun, come da tradizione maronita, è uno degli aspiranti alla carica presidenziale e la risposta di questi giorni dell’esercito al fuoco israeliano può essere valutata anche in questo contesto. Il comandante potrebbe vantare di aver partecipato comunque al conflitto per difendere il territorio, presentandosi come candidato di compromesso. La carica di capo dell’esercito, d’altra parte, è già stata trampolino per la presidenza del Paese. Non vuol dire, però, che l’esercito comanda come succede in altri Paesi arabi.

Il Libano lo può risollevare solo la comunità internazionale?

Sì, ma non basta. Adesso si torna a parlare di convocare il parlamento per eleggere un presidente: alla fine di ottobre sono due anni che la carica è vacante, ma questa convocazione non può avvenire sotto i bombardamenti israeliani.

I bombardamenti sono molto pesanti, ma bastano agli israeliani per mettere in sicurezza il Libano ed evitare attacchi al nord di Israele?

Israele pensa di essere inattaccabile, di non dover rispettare nessuna regola, anche perché nessuno dice niente. Netanyahu è stato invitato all’ONU senza pensare che da un momento all’altro potrebbe essere destinatario di un ordine di arresto per crimini di guerra. Questo incoraggia gli israeliani ad andare avanti, commettendo anche degli errori. Tel Aviv dovrebbe imparare dalle precedenti invasioni in Libano: nel 1982 ha subito perdite quotidiane, nel 2006 il giorno prima della tregua gli israeliani hanno tentato un’azione di vendetta contro luoghi simbolo della resistenza e sono finiti in un’imboscata, perdendo una dozzina di carri armati. La popolazione del sud è tenacemente attaccata alla propria terra, non vuole che le succeda quello che è successo ai palestinesi.

Lo scenario che si apre in Libano, almeno a breve, qual è allora?

Prima delle elezioni USA gli israeliani cercheranno di sfruttare tutte le occasioni per bombardare, contemporaneamente il Libano deve cercare di darsi delle istituzioni credibili, anche con un aiuto esterno.

(Paolo Rossetti)

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