Il 4 febbraio scorso, l’allora inviato delle Nazioni Unite in Libia, Ghassan Salamé, aveva annunciato la decisione delle fazioni libiche di accettare la negoziazione di un “cessate il fuoco”, concordata e monitorata dalle Nazioni Unite. Sembrava così realizzarsi uno dei punti più importanti discussi nella Conferenza di Berlino del 19 gennaio che prevedeva, tra altre cose, di trasformare la tregua (che in realtà non c’è nel Paese dall’aprile del 2019) in un vero e proprio cessate il fuoco. Purtroppo gli eventi che hanno contrassegnato questi ultimi mesi ci hanno dimostrato che i miracoli non esistono e le cose belle, quando accadono, durano poco. La Libia non è un’eccezione ma, anzi, la prova che tutto può cambiare in un attimo.
Da quel “lontano” 4 febbraio il mondo è cambiato. Il coronavirus, che non ha peraltro risparmiato la ex Jamahiriya, ha stravolto le nostre vite, accendendo i riflettori del mondo sulla pandemia e allontanandoli dal teatro libico in cui, grazie anche alla disattenzione mediatica e della comunità internazionale, le violenze sono riprese in maniera devastante. A poche miglia dalle nostre coste c’è una guerra non più a bassa intensità, così come gli esperti amavano chiamare la conflittualità nel Paese, ma che assume sempre più le sembianze di una carneficina con violenze indiscriminate ed esecuzioni sommarie.
A più di un anno dall’annuncio di Khalifa Haftar di avanzare verso Tripoli per conquistare tutta la Libia (in pochi giorni diceva lui) il quadro è drammatico. Il supporto logistico degli egiziani, le armi emiratine e l’aiuto sul campo dei mercenari russi della Wagner avevano probabilmente rassicurato il generale su una rapida conquista della capitale. Così non è stato. Dopo un anno la guerra ha raggiunto la sua massima intensità.
Sarebbe impossibile raccontare tutti gli eventi che hanno caratterizzato “l’anno di sangue della Libia”. Si ripercorreranno solo quelli più recenti per capire cosa sta accadendo nel Paese e quali potrebbero essere le conseguenze.
Lo scorso 21 marzo un attacco del generale Khalifa Haftar a Tripoli ha preso di mira il centro della città vecchia, una zona popolata prevalentemente da civili, in cui non vi sarebbero installazioni militari. Un’azione piuttosto grave, tanto che il giorno successivo l’Ambasciata d’Italia ha emanato una dichiarazione di condanna ai “continui, inaccettabili, bombardamenti che (…) hanno colpito numerosi quartieri residenziali”, invitando Haftar a rispettare il cessate il fuoco. Dall’Italia nessuna risposta.
Tuttavia in guerra, si sa, non ci sono buoni e cattivi ma solo cattivi e peggiori. Il 15 aprile parte con veemenza la controffensiva delle forze del Governo di accordo nazionale (Gna), supportato in maniera energica dalle milizie inviate dalla Turchia che si sono sostituite al Gna nella gestione del conflitto, dispiegando uomini e mezzi. Grazie ai “nuovi arrivati” le forze governative hanno riconquistato Sabratha e Sorman, città nell’area costiera a ovest di Tripoli, assicurandosi l’importante direttrice che va dal valico di frontiera con la Tunisia alla città di Misurata (vicina al Gna).
Dall’altra parte, Haftar non ha alcuna intenzione di gettare la spugna e le sue forze hanno compiuto numerosi lanci di missili Grad nello scalo di Mitiga e nella base navale di Abu Setta, tanto che la nave militare italiana “Gorgona” è stata allontanata dalle acque antistanti la base. Al momento la battaglia sembra concentrarsi nell’area di Tarhouna, la più importante base del generale Haftar a ovest. Le notizie di cosa stia accadendo ora in questa città vitale per Haftar non sono ancora chiare, ma sembra che le forze del Gna (e soprattutto le milizie turche) sarebbero entrate in città. Chi conquista Tarhouna conquista un capitale importante per le sorti di questa guerra, da qui la sua valenza strategica e da qui la drammatica impressione che potrebbe esservi un bagno di sangue fin qui mai visto.
Nel frattempo in Libia ci sono tre emergenze: quella militare, già illustrata; quella sanitaria con il coronavirus che in questa situazione senza controllo potrebbe espandersi e quella economica con il blocco del petrolio deciso lo scorso gennaio dal generale Haftar che ha fatto crollare la produzione da 1,20 mln di barili al giorno a 70mila.
Questi, in breve, i drammatici eventi degli ultimi giorni dinanzi ai quali l’Europa, Italia in primis, erano voltate dall’altra parte a combattersi a colpi di eurobond. Non resta, ora, che capire cosa potrebbe accadere nel Paese. Da un lato il comando haftariano appare determinato ma piuttosto frammentato e dipendente dagli aiuti esterni. Dall’altra appare sempre più chiaro che oggi per parlare con Serraj si deve chiamare Erdogan. Quell’Erdogan che vuole prendersi il Mediterraneo orientale (grazie all’accordo per una Zee – Zona economica esclusiva – con Serraj) e, magari, anche le rotte migratorie del Mediterraneo centrale. Un bel ricatto per l’Italia.
Da un punto di vita strategico i progressi de Gna non sembrano preludere a una riconquista del Paese, né vi sono i presupposti perché la guerra possa dilagare anche a est. Resta l’ipotesi (e a questo punto anche la speranza) di un punto di equilibrio militare e territoriale rispetto al quale l’intera comunità internazionale – che però prima dovrebbe risvegliarsi da questo ingiustificato torpore – e i rispettivi sponsor internazionali, dovrebbero ricalibrare il loro contributo per giungere a un nuovo tentativo di dialogo, magari allargato agli attori locali.
Per quanto riguarda l’Italia, che oramai sembra aver totalmente dimenticato di non avere una politica estera, va detto che non vi sono più scelte: se vorrà tornare a dialogare con gli attori dell’ovest dovrà necessariamente “alzare la cornetta e chiamare Ankara”: è lei che decide, probabilmente anche sulla questione migranti che, visto il caos che regna nelle coste di Tripoli, potrebbe tornare a essere centrale nei prossimi mesi. E a chi eccepisce che la Turchia non sia l’interlocutore migliore con cui parlare non si può che rispondere che l’Italia, in fondo, se l’è davvero cercata.