Una telefonata male interpretata o una discesa in campo decisa? Il colloquio di Donald Trump nei giorni scorsi con il generale Haftar ha dato il via alle interpretazioni più svariate. C’è chi ha detto che il presidente americano abbia dato l’ok all’attacco finale a Tripoli, tanto che la Casa Bianca ha dovuto rilasciare una smentita formale. La realtà, ci ha spiegato Andrew Spannaus, è che Trump ha capito che la Libia sta cadendo nelle mani di Haftar, ma soprattutto vuole rompere definitivamente con la politica di Obama e di Hillary Clinton da cui ancora oggi la politica americana verso il paese nordafricano dipende. Ma questo comporta una serie di problematiche internazionali e interne, in primis la visione neocon aggressiva di Mike Pompeo e Michael Bolton.



Che cosa ha significato realmente la telefonata di Trump al generale Haftar?

La politica attuale estera americana è in mano a un gruppo di neocon, in particolare Michael Bolton e Mike Pompeo che hanno una linea aggressiva neoconservatrice. Questo lo vediamo nei confronti del Venezuela, della Russia e dell’Iran. A parte questi ultimi, Trump invece ha altre idee, si basa sui suoi istinti, ad esempio non ha nessuna intenzione di fare un intervento militare in Venezuela o di rompere con la Russia. Fa la voce grossa ogni tanto e basta.



Per quanto riguarda la Libia invece?

In Libia l’istinto di Trump è che quello che si è fatto fino ad adesso non ha funzionato, che Serraj è circondato da milizie di dubbia ispirazione vicine ai Fratelli musulmani e che invece l’altra parte, quella di Haftar, almeno in termini di anti-terrorismo è dalla sua parte. Quindi cerca di spostare la politica nella sua direzione. Questo non vuol dire che abbia dato davvero l’ok all’attacco militare a Tripoli, è Haftar che deve aver interpretato così le sue parole.

Haftar militarmente ha quasi vinto, ma questo assicura anche il risultato della transizione politica?



Non penso che Haftar come capo indiscusso sia la strada migliore, e credo che neanche lui sia interessato a essere il presidente operativo della Libia. Nell’attuale situazione è necessario arrivare a una soluzione negoziata dove certamente Haftar avrà un ruolo guida e il parlamento di Tobruk un ruolo principale, ma con la presenza anche di Tripoli e Misurata.

Una Libia divisa in tre parti?

Bisogna arrivare a una qualche forma di stabilità in modo che la Libia diventi gestibile. Una soluzione finale a breve non è ancora realistica, bisogna invece negoziare per fermare l’avanzata militare e convincere Haftar a non attaccare Tripoli, questo è auspicabile nel breve periodo.

Questo quadro che problemi pone ai sostenitori di Misurata e Serraj, ovvero Qatar e Turchia? E rispetto agli alleati degli Usa, Arabia Saudita ed Emirati Arabi?

Gli Usa hanno sostenuto con Obama e soprattutto con Hillary Clinton l’islam politico di Tripoli. Haftar ha dietro Russia, Arabia Saudita e Francia. Trump ovviamente vuole cambiare la politica americana ma è complicato perché nel governo ha persone che non la pensano come lui. Potrebbe farcela perché avrebbe dietro l’Arabia Saudita, ma c’è anche la Russia e Bolton e Pompeo non vogliono alcun compromesso con Mosca. E’ una situazione complessa.

Come commenta la politica del’Italia sulla Libia? Cosa deve fare?

L’Italia non può tenersi fuori, deve essere presente con Haftar, non può stare solo con Serraj. Non riconoscere il cambiamento in atto non sarebbe intelligente. C’è già un canale aperto con Tobruk ma non basta, la questione è non rimanere indietro, e l’Italia è già indietro.