Impossibile evitare tristi scetticismi registrando il fallimento dell’ennesimo round negoziale svoltosi in Qatar per tentare l’obiettivo di arrivare ad una tregua dei combattimenti nella Striscia di Gaza e al rilascio degli ostaggi ancora detenuti da Hamas. Impossibile, visto il perdurante lancio di missili da Gaza verso i territori israeliani, e malgrado Basem Naim, uno dei leader politici di Hamas, abbia sostenuto la “serietà e positività del suo gruppo e il suo impegno a raggiungere un accordo per un cessate il fuoco il prima possibile”, dichiarazione che lascia tutti indifferenti, visti i numerosi identici precedenti, invariabilmente falliti. Troppo distanti le posizioni, troppo intransigenti le parti, troppo poco persuasivi gli impegni internazionali.
Le proiezioni di Tel Aviv oggi sembrano puntare ad una riconosciuta leadership nell’intero quadrante, meglio se con il compimento degli Accordi di Abramo interrotti dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 Ottobre, e cioè con un’alleanza di fatto con Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Così non fosse, comunque Israele sembra voler “agire come l’impero musulmano in espansione dell’Alto Medioevo, pronto a conquistare l’intero Medio Oriente”, sostiene Dahlia Scheindlin su Haaretz.
Fino a prima del 7 Ottobre era chiaro che la destra radicale del governo di Tel Aviv aveva visioni selvagge sull’occupazione di Gaza, ma Israele non aveva un piano concreto per la conquista territoriale oltre confini: i sionisti avevano limitato la loro pretesa massimalista allo storico mandato britannico della Cisgiordania. È stato il sanguinoso attacco di Hamas, seguito dalla decisione di Hezbollah di unirsi alla guerra e così ispirando gli Houthi dello Yemen, a internazionalizzare il tutto. Oggi però sta diventando difficile respingere la teoria dell’impero. Dopo mesi (e anni) di limitate escalation con Hezbollah, Israele è arrivata ad una guerra su vasta scala a settembre scorso, con le esplosioni dei cercapersone e l’uccisione di Hassan Nasrallah, preludio di un’invasione aerea e terrestre del Libano su larga scala, progettata per rimuovere per sempre la minaccia militare di Hezbollah. Il Libano, dunque, è divenuto parte della “terra promessa”? Certamente sì, almeno secondo il gruppo “Wake up the North”, i cui attivisti sono già entrati in Libano e hanno piantato tende: “Presto non saremo più oltre il confine”, sostengono.
Ma il nuovo impero israeliano si muove anche a est. Dopo il crollo del regime siriano, e la fuga del dittatore Bashar Assad, riparato in Russia, le forze IDF si sono subito mosse nella zona demilitarizzata delle alture del Golan all’interno della Siria, per eliminare gli avamposti dei miliziani filoiraniani e facendo intendere che non si trattava di una breve incursione. Lo stesso Netanyahu ha dichiarato che Israele rimarrà nel territorio siriano. Una nuova Siria patchwork, dove le multietnie e i tanti credi religiosi stanno vivendo in sospensione, in attesa dell’evolversi degli eventi, e dello smascheramento degli appetiti degli Stati limitrofi. In una schizofrenia che vede la nuova leadership siriana assicurare il rispetto di tutti, donne comprese, ma anche il nuovo capo al Jawlani evitare di stringere la mano alla ministra degli esteri tedesca Baerbock (una donna!), nel primo incontro a Damasco con esponenti UE, mentre il ministro degli Esteri della coalizione Hayat Tahrir al Sham (HTS), Asaad Hassan al Shibani, diceva che visiterà il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e la Giordania per “sostenere la stabilità, la sicurezza, la ripresa economica e costruire partnership distinte”. Cosa credere?
Se il futuro della Siria sembra sempre più incerto, resta in divenire anche quello dell’intero Medio Oriente e dell’Iran, dove appare almeno sbiadito il sogno di Teheran di un corridoio sciita verso il Mediterraneo. Ma anche nei disegni israeliani le incognite non mancano: a partire dalla postura araba, un grande Stato rivelatosi incapace, in tanti anni di guerra, di rintuzzare le mire degli Houthi filoiraniani. Ribelli che resistono oggi ai frequenti strike delle forze angloamericane, e alle difese ai convogli commerciali attivate dalle unità navali della missione europea Aspides nel Mar Rosso. Missione che, nell’indifferenza generale, sta per concludersi (a febbraio) senza che nessuno parli di un eventuale rinnovo, magari con più mezzi e regole d’ingaggio più efficaci.
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