Tra Sana’a e Tel Aviv ci sono circa 2.500 chilometri quasi tutti desertici, tra penisola araba, Giordania o, volendo aggirare il Paese sunnita, il Sinai egiziano. Ora, quel drone armato che l’altro giorno è riuscito inspiegabilmente a colpire il cuore amministrativo dello Stato ebraico tutti concordano nel classificarlo come un Samad 3/KAS-04, che sarebbe una versione extended range del Samad 2, di produzione iraniana, anche se i lanciatori, cioè i ribelli Houthi dello Yemen, parlano di un Yafa, un misterioso drone di nuova concezione.



Credere alle parole degli Houthi però non è mai una buona idea, tanto è difficile distinguere la verità dalla propaganda o dalla disinformazione. Ad esempio, gli Houthi parlano di un drone in grado di aggirare i sistemi di rilevamento radar, ma tutti sanno che quel tipo di velivoli a comando remoto non sono dotati di particolari configuranzioni stealth. Senza sbilanciarsi, è bene considerare anche altre ipotesi, prima tra tutte quella, per niente rassicurante, di una sinergia tra le varie milizie proxy di Teheran, cioè gli Houthi yemeniti, l’Hezbollah libanese, Hamas a Gaza, anche se questi ultimi sembrano oggi sfibrati dalla violenta guerra che Israele ha innescato dopo il massacro subito il 7 ottobre 2023.



Quel drone, dunque, un Samad 3 Uav (Unmanned Aerial Vehicles) derivato dall’iraniano Kas-04, con un raggio d’azione solitamente riportato a 1.000 chilometri, potrebbe aver evitato il lunghissimo, poco plausibile sorvolo (che avrebbe avuto bisogno di una guida costante, con precisi punti radar e geografici di riferimento), con un lancio avvenuto non dallo Yemen, ma da uno dei territori controllati dai cugini filoiraniani, o addirittura da una piattaforma mobile, terrestre o marina, cioè una qualsiasi nave (anche commerciale) minimamente attrezzata allo scopo. Questo potrebbe spiegare l’elusione del drone nei confronti dei sistemi antiaerei sia israeliani che americani, pur presenti massicciamente in tutto il quadrante. La rotta seguita dal drone (sorvolo del Sinai e di una porzione di Mediterraneo), per piombare su Tel Aviv dal mare, avvalorerebbe l’ipotesi, e giustificherebbe in certo modo la falla della difesa, evidentemente impreparata a parare colpi provenienti dal fianco occidentale, e propensa a classificare quella traccia radar da lì originata quale velivolo “amico”.



Intanto che gli israeliani e i loro alleati indagano sulla vera origine di quel drone (tra le ipotesi sono anche la Siria o l’Iraq, dove agiscono varie milizie filosciite) gli Houthi continuano a colpire nel loro giardino di casa, il Mar Rosso, tra lo stretto di Bab-el-Mandeb e Suez, “in solidarietà con i palestinesi di Gaza”. Attaccata l’altra notte la Chios Lion, una petroliera battente bandiera della Liberia, con l’utilizzo stavolta di droni marini, cioè barchini senza equipaggio imbottiti di esplosivo. Altre azioni sono state segnalate contro altri convogli dal Comando Centrale degli Stati Uniti, le cui forze hanno distrutto nelle ultime ore 5 droni dei ribelli, tre sul Mar Rosso e due sulle aree dello Yemen.

Tutt’altro che tranquillo, per Tel Aviv, anche il fronte nord, quello delle alture del Golan, a sud del Libano. L’altro giorno Habib Maatuk, un comandante di Radwan, la forza d’élite di Hezbollah, sarebbe rimasto ucciso in un raid israeliano. E caccia con la stella di David avrebbero disintegrato alcuni depositi di armi di Hezbollah a Tayr Harfa e Blida. La risposta non s’è fatta attendere: l’IDF sostiene che i terroristi hanno lanciato circa 65 razzi verso Israele, alcuni dei quali sono stati intercettati, mentre altri sono caduti in aree aperte, senza causare vittime.

A chi confidava nelle trattative di tregua, se non di pace, che Hamas – per l’ennesima volta – aveva finto di promuovere, non resta davvero nessuna illusione: tutto il Medio Oriente oggi è una gigantesca polveriera, con varie micce già accese, e pronta a detonare definitivamente, specie se negli Usa avvenisse il ritorno di Trump alla Casa Bianca: l’imprevedibilità in politica estera del tycoon è una delle incognite che potrebbero segnare – nel bene, nel male, nel disimpegno – il disegno di un nuovo Medio Oriente.

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