Li avevano rassicurati: partivano per una missione di peacekeeping, l’Unifil (United Nations Interim Force In Lebanon), nata nel 1978 in seguito ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e sistematicamente rinnovata, con lo scopo sostanziale di controllare il fragile e confuso confine tra Libano e Israele, in una ipotetica linea blu (stabilita nel 2000) che andava fino al confine tra Libano e alture del Golan, smilitarizzare gli attivisti presenti nell’area, proteggere la popolazione civile locale, e affidare i compiti armati all’esercito regolare libanese. La linea in teoria divenne una zona cuscinetto, con i caschi blu neutrali, deterrenti per evitare le azioni ostili da parte di Hezbollah, che invece proprio da quella zona ha fin da subito operato per colpire Israele con il continuo lancio di missili verso le zone abitate del nord, provocando la fuga di decine di migliaia di civili.
Oggi la missione di pace Onu si ritrova sprofondata nella guerra, anzi proprio nella zona di più frequenti combattimenti, anche se nessuno dei 1.100 soldati italiani (come degli altri 10mila del contingente Onu) avrebbe mai pensato di essere al centro del fuoco incrociato di Hezbollah e delle forze armate di Israele, che resta ancora l’unica democrazia dell’intero Medio Oriente.
All’ombra delle basi Unifil, dicono gli israeliani, si nascondono postazioni dei miliziani filoiraniani, che vedono i caschi blu quali possibili scudi umani. Ed effettivamente tutta la zona blu è stata di fatto a disposizione dei terroristi, vista la quantità di tunnel e postazioni che Hezbollah ha potuto realizzare nel tempo. Difficile immaginare che i caschi blu non se ne siano mai accorti. È invece piuttosto evidente che il controllo del territorio assegnato, la sua smilitarizzazione, non siano mai avvenuti, e che la consegna all’esercito regolare libanese sia solo un’astrazione, vista la pochezza di quelle truppe e la preponderanza praticamente in tutto il Paese delle falangi islamiste.
La missione Unifil è rimasta fino ad oggi, dunque, solo per far sventolare le bandiere, in un’utopica chimera di volontà pacifista mondiale in un’area da sempre segnata da conflitti insanabili. Per di più, Unifil è espressione delle Nazioni Unite, che in realtà unite non sono per niente, sclerotizzate in un organismo dove la dinamica dei veti dei “grandi” impedisce qualsiasi vera mediazione.
In questa situazione, le previsioni di un possibile cessate il fuoco sono a dir poco improponibili. “Mentre la resistenza di Hezbollah in Libano è stata finora limitata – sostiene Amos Harel sul quotidiano Haaretz –, l’organizzazione ha colpito una base dell’Idf nel centro di Israele, uccidendo quattro soldati israeliani e ferendone decine. Ma con l’aumento della sicurezza politica per Netanyahu, e la poca pressione da parte degli Stati Uniti per porre fine all’incursione in Libano, l’investimento di Israele nella guerra si sta approfondendo”. E l’analista Jonathan Lis ha aggiunto che “una fonte politica israeliana di alto livello ha detto che Israele continuerà i suoi attacchi a Beirut nei prossimi giorni, confutando un rapporto dell’emittente pubblica israeliana Kan 11, che sosteneva che il governo aveva ordinato all’Idf di cessare di colpire la capitale libanese. Israele in realtà sta attaccando ovunque in Libano, compresa Beirut”.
Ma per Israele, che continua a studiare la reazione contro l’Iran (il recente cyberattacco è stato solo l’inizio), restano impegnativi anche gli altri fronti, da Gaza alle postazioni filoiraniane in Siria e Iraq, fino al Mar Rosso, dove i ribelli yemeniti Houthi hanno rivendicato un attacco ad una nave commerciale. La petroliera “Olympic Spirit” (battente bandiera liberiana, ma accusata di essere in realtà statunitense, diretta in Oman) è stata bersaglio di 11 missili balistici e due droni, e sarebbe stata colpita direttamente e in modo grave, mentre navigava a circa 70 miglia a sud-ovest di Hodeidah. Presa di mira anche la “St. John”, stavolta nell’Oceano Indiano, perché il proprietario aveva violato il “divieto di accesso ai porti della Palestina occupata”.
Difficile ipotizzare un’autonomia degli Houthi nel localizzare e centrare bersagli anche a così grande distanza, procedura che richiede sofisticati sistemi di scoperta e tracciamento: più realistico supporre la copertura attiva di una potenza d’area, quale l’Iran. In quest’area manovrano le unità della missione Aspides, giunte alla terza rotazione, e tornate sotto il comando tattico italiano (contrammiraglio Massimo Bonu), sempre con strette regole d’ingaggio, a carattere difensivo per sé e per i carghi in transito.
Succede tutto in un quadrante che vede da tempo la Marina militare italiana impegnata a pieno titolo, vista la nostra posizione nel “Mediterraneo allargato”: non più lo storico Mare nostrum, ma un’area vasta, dove i perimetri della geografia e quelli della geostrategia non coincidono più. Un’area “anfibia” che comprende il Mediterraneo propriamente detto, ma anche il Mar Nero, il Mar Rosso e il Golfo Persico, con le terre emerse comprese tra questi mari, e quindi i Paesi europei della sponda nord e quelli nordafricani della sponda sud, così come il Vicino e Medio oriente, per finire col Sahel e il Corno d’Africa.
“La recente crisi nel Mar Rosso – sostiene l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) – rappresenta, per l’Italia, una potenziale minaccia alla validità del concetto stesso di Mediterraneo allargato. Se l’Italia non sarà in grado di mantenere la sicurezza del choke point che si dipana da Bab el-Mandeb, via Mar Rosso, fino a Suez, non sarà in grado di dare concretezza allo spazio geopolitico e geoeconomico cui ha guardato con crescente interesse negli ultimi quarant’anni”.
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