Mentre l’altro giorno da Gaza i terroristi di Hamas lanciavano quello che ha tutta l’aria d’essere l’ennesimo bluff (hanno trasmesso a Israele “il riferimento” sulle linee generali dell’intesa, parlando di “nuove idee” per risolvere la guerra che dura da nove mesi), che Israele intende “andare a vedere”, inviando una delegazione all’eventuale, prossimo tavolo negoziale in Qatar, sul fronte nord – alture del Golan, sud Libano, alta Galilea – quegli altri terroristi (pure loro fanatici islamisti) di Hezbollah hanno informato del lancio di cento tra razzi, missili e droni contro due postazioni israeliane.
Si sarebbe trattato di una ritorsione dopo che un alto comandante del gruppo sciita era stato ucciso in un attacco delle forze armate israeliane (IDF). Il tutto mentre sul fronte più a sud, il quadrante prospiciente le coste yemenite, i terroristi islamici Houthi dichiaravano di aver effettuato un’estesa operazione militare non solo nel Mar Rosso, ma anche nel Mar Arabico, nel Mediterraneo e nell’Oceano Indiano, segnando “un nuovo punto di svolta nelle operazioni di interdizione del traffico navale destinato a Israele o di Stati complici”. Yahiya Saree, il portavoce di Ansarallah, ha parlato degli attacchi ad una nave israeliana nel Mar Arabico, una petroliera americana nel Mar Rosso, una nave britannica nell’Oceano Indiano e un’altra nel Mediterraneo.
Tre mosse che sono sempre più difficili ipotizzare autonome, singole, non concertate, perché la matrice comune a tutti i miliziani islamisti in armi contro lo Stato ebraico e il Grande Satana, gli Usa, resta sempre l’Iran, lo Stato dei guardiani della rivoluzione che addestra, arma, finanzia le sue truppe proxy, sorta di legione straniera, Iran minacciato adesso però al suo interno per la prima volta da una tornata elettorale che ha evidenziato il forte malessere della popolazione.
In quest’ottica, sembra chiaro il disegno di frazionare le attenzioni, tenere impegnate le forze nemiche su più fronti, e contemporaneamente dare il miraggio di una tregua possibile almeno su uno dei fronti, spingendo gli Usa, ad esempio, a premere su Tel Aviv per la mitigazione unilaterale dei combattimenti.
Netanyahu, comunque, lo sa bene e va avanti. Anche con qualche eccesso, come la più grande confisca di terre in Cisgiordania da oltre 30 anni. Secondo la Ong israeliana Peace Now, le autorità di Tel Aviv avrebbero dato il via libera all’appropriazione di 12,7 chilometri quadrati di terra nella Valle del Giordano. I palestinesi considerano l’espansione degli insediamenti nella Cisgiordania occupata come il principale ostacolo a qualsiasi accordo di pace duraturo e la maggior parte della comunità internazionale li considera illegali o illegittimi. Oggi però il più grande problema sembra essere proprio Gaza, e il suo incertissimo destino anche quando i cannoni taceranno, senza che siano nemmeno abbozzati i presupposti per un dopoguerra solido, anzi: già adesso vengono riferite situazioni intollerabili, con il deserto di macerie dei centri un tempo popolosi in balìa di palestinesi allo sbando, armati e disposti a tutto pur di mettere mano sugli aiuti umanitari, sulle risorse conservate nelle banche e nei pochissimi sportelli bancomat non disintegrati dalle bombe.
Ma, al di là del Libano e di Gaza, è bene non dimenticare anche la situazione nello stretto di Bab el-Mandeb, la porzione di mare in cui agiscono i ribelli Houthi, dove opera la missione europea Aspides, a protezione dei traffici commerciali, e dove però le tensioni sono in aumento. Malgrado i passaggi verso Suez siano diminuiti, da un paio di mesi gli attacchi hanno ripreso a salire, generando sempre più incertezze che si scontrano con la forte domanda di container dalla Cina. Fattori che spingono verso l’alto il prezzo dei noli da Shanghai a Genova (quintuplicato dall’inizio del conflitto).
La US Navy ha dislocato la USS Theodore Roosevelt, una portaerei che è di stanza a San Diego, dal Mar Cinese Meridionale al Mar Rosso. Ma è una misura tampone, fino a quando la prossima portaerei con base sulla costa orientale non sarà pronta. Il problema è che gli Usa, i guardiani del mondo, accusano qualche crepa nella loro ubiquità: la US Navy è in carenza di portaerei sulla costa atlantica e ammette che nessuna nave con base sulla costa orientale è pronta per essere schierata in sostituzione della USS Dwight D. Eisenhower. Proprio mentre il Paese si concentra sul rafforzamento della propria presenza nel Pacifico in un contesto di forti tensioni con la Cina.
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