Perfino il New York Times – vera “Pravda” dell’ideologia globalista in salsa politically correct – ha riconosciuto che “Biden e la Nato non sono innocenti in Ucraina”. Vladimir Putin è certamente un “cattivo” che ha gettato ogni maschera, ma l’Occidente non si sta affatto rivelando “buono”, tanto meno a prescindere. Soprattutto: si sta mostrando non competitivo contro la “democratura” russa. Come minimo, superficiale – su un nodo geopolitico trentennale e di primo livello – ai limiti dell’arroganza che oggi imputa al nuovo Zar di Mosca.
La crisi del Donbass non è un terribile fulmine a ciel sereno come l’attacco dell’11 Settembre (ammesso che anche quello lo sia stato). L’offensiva del gas di Mosca è in corso da almeno sei mesi: colpevoli di fake – nell’ignorarla – sono state le strutture di governo e i media dell’Occidente. Ma il dossier ucraino è virtualmente aperto dal giorno dello scioglimento dell’Urss: quando Putin era un giovane colonnello del Kgb di stanza a Berlino (verosimilmente ha iniziato a meditare già allora una rivincita vendicativa contro l’Occidente, all’insegna del nazionalismo imperialista russo).
Se Usa e Nato “non sono innocenti” è perché da allora hanno continuato sull’Ucraina una tradizionale guerra semi-fredda con Mosca: fatta di semi-conflitti militari (come quello che portò all’annessione della Crimea); di semi-accordi diplomatici (come quelli eloquentemente siglati a Minsk, capitale bielorussa); di continue interferenze reciproche, fra diplomazia più o meno alta e interessi più o meno privati o elettorali. Di scommesse a carte semicoperte, come Nord Stream 2: bloccato nell’arco di una notte dopo decenni di progettazione politico-economica e decine di miliardi di investimenti.
Se l’ex presidente Donald Trump ha addirittura rischiato l’impeachment per il cosiddetto Russiagate, il figlio di Biden è stato più che sfiorato da sospetti di contatti non trasparenti con Kiev. Il presidente “dem” oggi in carica, allora vice di Barack Obama, fu attivissimo nel teatro ucraino ai tempi della controversa “rivoluzione arancione” del 2014: vera origine della contro–escalation russa. Data da piazza Majdan – in classico format Cnn – la (strumentale) preoccupazione putiniana di vedere la Nato “esportatrice di democrazia” ma anche di armi tecnologiche alle frontiere russe: non meno di quanto il Patto di Varsavia volesse consolidare la rivoluzione leninista di fronte alle coste americane, esportando missili a Cuba (il primo atto della presidenza Kennedy era stato due anni prima il tentativo di sbarco orchestrato dalla Cia alla Baia dei Porci, per riportare l’ordine all’Avana, nel “cortile di casa” statunitense).
Nel frattempo, Putin ha già ottenuto senza combattere in Ucraina due obiettivi: colpire duramente un’Europa in tutti i sensi convalescente dalla pandemia; e – soprattutto – dividere la Nato. Gli elettorati delle democrazie Ue (quello francese sta per decidere la riconferma o meno del presidente Emmanuel Macron) saranno messi a durissima prova dall’auto-sanzione dell’inflazione da gas, decisa dai loro governi apparentemente su ordine Usa.
“Morire – di caro energia – per Kiev”? I “gilet gialli” francesi? Sei mesi dopo che l’America di Biden ha abbandonato alla mercé dei talebani donne e bambini di Kabul? Dopo anni di narrazioni sulla “cattiveria” di Trump verso l’Europa, contro la Nato troppo costosa per gli Usa a vantaggio della Ue? E che dire anche della dura polemica ingaggiata d Bruxelles verso una Polonia che starebbe scivolando verso la democratura ma vanta anche un rapporto ferreo con Washington?
Che fare? Così come la Ue sta affrontando – dovrebbe affrontare – una fase di rifondazione, la Nato va ripensata e ricostruita. E se la Ue difficilmente può fare in fretta nel redigere un Terzo Trattato dopo Roma 1957 e Maastricht 1991, la Nato può consentirsi un colpo di reni: cambiando subito la leadership.
Il segretario generale – per prassi un ex premier europeo, di norma di profilo non altissimo – è oggi il norvegese Jens Stoltenberg: classico scandinavo buono per tutti gli usi e le stagioni internazionali. Un ex premier di un Paese europeo ma non membro della Ue. Un identikit chiaramente “unfit” in questa fase nuova, di magnitudine geopolitica assai poco ordinaria. Alla Nato serve un vero leader Ue: come l’ex cancelliere tedesco Angela Merkel (che Obama aveva indicato come sua erede globale); o il premier italiano Mario Draghi, ex presidente Bce, da sempre molto stimato oltre Atlantico. Un buon inizio della ricostruzione della Nato farebbe bene anche alla rilancio della Ue. Entrambi le prospettive dovrebbero apparire a Washington anche nell’interesse dell’America.
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