La guerra in Ucraina sta avendo e avrà conseguenze economiche. Basta pensare ai rincari delle materie prime energetiche e alimentari che colpiranno, via inflazione, il potere d’acquisto delle famiglie, alla riduzione del giro di affari di diverse imprese esportatrici, che potrebbero dover ridurre il proprio personale, come pure quelle appartenenti a settori come il turismo che non potranno contare sulle presenze russe o di altri Paesi. E, come ci spiega Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, il rischio che queste conseguenze non siano solo transitorie aumenta con il passare dei giorni, “anche perché non abbiamo un’indicazione, un segnale da parte di Putin su come intenda muoversi”.
È così importante saperlo?
Sì, perché se, come sembra, sta agendo per una sorta di “riconoscimento”, per ricostruire qualcosa che si avvicina alla vecchia Unione Sovietica, allora le cose potrebbe andare per le lunghe. Mi colpì all’epoca una dichiarazione che fece il presidente degli Stati Uniti Obama: la Russia non doveva essere considerata più una potenza internazionale, ma regionale. Io credo che questo aiuti a comprendere che se quello che si può considerare di fatto il presidente a vita della Russia, l’autocrate Putin, intende lasciare in eredità al sentimento nazionale russo qualcosa che si avvicina alla vecchia Unione Sovietica, un obiettivo che certamente non giustifica la brutale aggressione all’Ucraina, allora difficilmente tutto tornerà come prima. Anche perché la situazione si sta complicando, sui social cinesi prevalgono i sentimenti pro-russi, non possiamo sapere con precisione cosa accadrà.
E tutto questo che implicazioni ha a livello economico?
Le tensioni sull’inflazione, sugli approvvigionamenti di materie prime, in questo contesto sembrano destinate a perdurare. Di conseguenza vanno realizzate tutte le manovre di riconversione produttiva possibili. Nel secondo dopoguerra c’era il timore che fosse impossibile riconvertire il sistema produttivo che era bellico, ma così non è stato e abbiamo assistito poi a una crescita storica. In questa fase serve una politica economica che si adegui alla rapidità e all’incertezza intrinseca, strutturale che stiamo vivendo. Del resto, più si allunga l’incertezza, più aumentano le pressioni sul tenore di vita anche dei cittadini dei Paesi europei.
Concretamente cosa significa? Che misure vanno prese?
Le misure vanno declinate nel dettaglio, ma tutto questo significa che per le nostre imprese il mercato è l’Europa, in particolare l’Italia. Questo non vuol dire ritirarsi dalle esportazioni, perché laddove rimane una libertà di scambio nell’interesse reciproco, Cina inclusa, finché sarà possibile, è bene che si prosegua, ma avendo una grande attenzione alla flessibilità, alla rincoversione sui mercati.
Occorre fare qualcosa anche sul piano delle importazioni? Resta, infatti, il problema di materie prime che diventano più scarse o più costose…
Alcune materie prime sono inevitabilmente fuori dalla nostra portata. Andrà probabilmente ricercata una sponda negli Stati Uniti, che hanno una certa disponibilità di materie prime rare. In Europa bisognerà lavorare molto sulle backstop technology, che possono sostituire prodotti o semilavorati attualmente utilizzati, perché in una situazione così tesa i colli di bottiglia nelle catene di fornitura sono destinati a perdurare. Parallelamente occorrerà impegnarsi molte sulle energie alternative. È vero che occorrerà del tempo perché sostituiscano quelle tradizionali, ma muoversi su questo fronte significa creare un effetto positivo per una componente che è decisiva anche per l’attività economica: le aspettative.
Prima ha citato la conversione produttiva del Secondo dopoguerra. Allora c’era però il Piano Marshall: serve qualcosa di analogo?
Certo ed esiste già: il Next Generation Eu.
Pensa che debba essere potenziato, ulteriormente finanziato o che vada bene così com’è?
Dipende dall’evoluzione della situazione. Al momento stiamo vedendo una notevole velocità di risposta da parte di Bruxelles. Se questo atteggiamento persisterà, come spero, allora cambierà il Next Generation Eu oppure verrà creato un nuovo fondo o creato un programma apposito: qualcosa verrà fatto subito.
Nel frattempo bisognerà provvedere con sussidi e ristori per quanti dovranno affrontare il caro bollette, la perdita di potere d’acquisto o del posto di lavoro anche solo per via della riconversione produttiva di cui parlava prima?
Sì. Se si verifica quel che abbiamo detto, cioè una riallocazione veloce della struttura produttiva in funzione della domanda, ci saranno dei sacrifici, ma sopportabili, perché a quel punto il posto di lavoro non si perde, vuoi per interesse economico, vuoi perché in situazioni estreme potrebbe comunque intervenire il settore pubblico, che non deve essere vincolato esclusivamente a un rendimento privato, il profitto: il riferimento deve essere il rendimento sociale.
Bisognerà però essere, sia a Roma che a Bruxelles, meno rigidi sui parametri di finanza pubblica…
Sì, c’è bisogno di flessibilità. Se il mondo è cambiato così velocemente nell’arco di pochi giorni, occorre essere ancora più veloci. Quel che riesce a trasmettere ottimismo in una situazione così incerta è la prontezza di risposta a ciò che avviene.
(Lorenzo Torrisi)
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