La guerra in Ucraina> sembra non avere fine. Tutti vorrebbero vincere e non si accorgono che stanno perdendo. Stanno perdendo vite umane, risorse, credibilità.
Ora si tratta di cercare nella storia anche qualche esempio a cui ispirarsi per prendere le decisioni giuste, forse anche per non perdere la speranza. Uno mi è venuto in mente. Me ne parlarono a Karaganda i discendenti di alcuni superstiti di Kengir. Ho poi scoperto che di Kengir parla lungamente anche Aleksandr Solzenicyn in Arcipelago Gulag, nella grande edizione italiana pubblicata da Mondadori alle pagg. 1093-1130.
Che cos’è Kengir e cosa vi accadde per quaranta giorni, dal maggio al giugno del 1954?
Kengir era un grande Gulager (lager di Stato) in Qazaqstan (oggi si scrive così) nella zona mineraria, semi-desertica, della regione di Zhezgazgan. Nel 1953 morì Stalin, poco dopo cadde in disgrazia e fu giustiziato il suo boia preferito Lavrentij Pavlovic Berija. Nei lager cominciò ad aleggiare una sorta di attesa di tempi migliori, in parte alimentata dall’ascesa al potere dell’ucraino Kruscev, che pure era stato uno stretto collaboratore di Stalin.
A Kengir era stato fatto uno strano esperimento: erano stati concentrati circa 8mila prigionieri politici. Fino ad allora i detenuti politici erano normalmente dispersi in mezzo ai criminali comuni, che di fatto li dominavano più delle guardie. Questi 8mila “politici” erano di tutti i tipi: molti comunisti finiti in disgrazia, diversi esponenti di etnie pericolose per il regime, e tra loro un gran numero di ucraini che erano stati accusati di collaborazionismo con l’invasore nazista. In verità la maggior parte di loro, dopo la terribile esperienza dell’Holodomor, avevano salutato i tedeschi, e gli italiani, come liberatori del regime sovietico.
Nel maggio del 1954 la direzione centrale dei lager decise di normalizzare anche la situazione di Kengir e vi inviò come detenuti 650 criminali comuni. Di fronte a essi i “politici”, pur provenienti da esperienze diverse, si coalizzarono e ben presto con le buone o con le cattive li associarono alle loro proteste.
Quando le guardie uccisero alcuni detenuti che stavano organizzando una protesta, scoppiò la rivolta. Per 40 giorni i detenuti divennero padroni del campo e le guardie dovettero fuggire all’esterno. Fu nominato come capo della rivolta l’ex colonnello dell’Armata Rossa Kapiton Kuznetsov, scelto non a caso per dimostrare che non si voleva combattere il regime sovietico, ma si chiedeva solo giustizia.
Per quaranta giorni la vita del campo fu autogestita dai detenuti in un clima quasi irreale. Fu persino celebrato qualche matrimonio religioso da un sacerdote ucraino là internato. Naturalmente alla fine la repressione fu terribile. Intervenne l’esercito con i carri armati, che schiacciarono letteralmente i rivoltosi. Sono riuscito ad avere un film sulla rivolta, che credo sia ora sparito dalla circolazione, il quale documenta scene di incredibile violenza, compresa quella dell’evirazione dell’aiutante di Spiridonov Juris Knopmus.
Nonostante tutto, questa rivolta non fu inutile. Rafforzò il senso di appartenenza della comunità ucraina, relegata anche fuori dal lager nella regione di Karaganda. Portò a concessioni negli altri lager per prevenire nuove rivolte.
Kengir divenne un mito nell’universo delle deportazioni, un esempio a cui ispirarsi nel tentativo di ottenere più giustizia. Naturalmente non ci fu nessuna solidarietà da parte dell’Occidente, che neanche seppe di quello che era accaduto. Eppure anche oggi, se l’episodio di Kengir fosse fatto conoscere ai giovani – non solo ucraini -, avrebbe ancora molto da insegnare. A cominciare dal fatto che una sconfitta può essere la premessa per una nuova resistenza. Che a volte si può trovare la solidarietà di gente, come i vecchi comunisti dell’Armata Rossa, che nella sofferenza potevano cominciare ad aprire gli occhi. Lo stesso dicasi per tante famiglie russe che, al di là di ogni propaganda, davanti ai loro figli sacrificati a migliaia forse cominciano a chiedersi se tutto quello che sta accadendo possa giustificare la loro tragedia.
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