Missili russi hanno colpito depositi di cereali in Ucraina, segno che la guerra si allarga sempre di più e che gli invasori hanno intenzione di mettere in ginocchio Kiev nel più breve tempo possibile. Dal punto di vista operativo, come ci ha detto in questa intervista il generale Giorgio Battisti, già comandante del corpo d’armata di Reazione rapida della Nato in Italia e capo di stato maggiore della missione Isaf in Afghanistan, “continua nel Donbass da Kharkiv fino a Mariupol una lenta ma progressiva pressione da parte russa, mentre è plausibile che si apra un nuovo fronte se le forze russe di stanza in Transnistria già prima della guerra entreranno in Ucraina per prendere Odessa alle spalle”.
Dal 1° maggio fino al 27 si tengono esercitazioni Nato su larga scala, dalla Georgia alla Lettonia, dalla Lituania alla Macedonia del Nord, dalla Norvegia alla Slovacchia. Che significato assumono nel contesto di guerra in atto?
Le esercitazioni Nato sono sempre pianificate e programmate con due anni di anticipo. Indubbiamente nel contesto attuale assumono una valenza diversa.
Si vuole incutere paura a Mosca?
Non esattamente. Confermano la capacità e la volontà della Nato di difendere i confini esterni dell’Alleanza, ma non sono una provocazione, perché appunto previste da tempo. Hanno senz’altro lo scopo di schierare e testare in uno spazio ampio, di centinaia di chilometri di distanza fra i Paesi interessati, consistenti contingenti di forze, che devono prendere dimestichezza con questi territori, nel caso la situazione dovesse precipitare. Scenario che tutti speriamo non si verifichi.
In alcuni casi però siamo ai confini con la Russia: Norvegia, Lettonia, Lituania e Georgia. C’è il rischio di un contatto anche incidentale?
I Paesi baltici fanno parte dell’Alleanza, una qualunque offesa militare fa scattare automaticamente l’articolo 5, quello cosiddetto dei tre moschettieri, tutti per uno, cioè l’intervento di tutta la Nato in aiuto al singolo Paese aggredito. In questo senso i Paesi baltici sono relativamente tutelati. Inoltre queste esercitazioni non arriveranno mai a schierare soldati al confine con la Russia. Teniamo infine conto che già negli anni 70 e 80, in piena Guerra fredda, esercitazioni di questo tipo si tenevano tutti gli anni e in quelle che si chiamavano “aree di contingenza”.
Cioè?
Zone in cui si pensava che una potenziale offensiva sovietica potesse passare da quelle parti, dalla Norvegia fino al confine di Gorizia, dal confine greco con la Bulgaria, allora Paese del Patto di Varsavia, alla Turchia, confinante con il Caucaso.
Secondo l’intelligence britannica, la Russia avrebbe usato il 65% del suo potenziale militare, di cui un quarto sarebbe stato distrutto. È propaganda o sono dati attendibili?
È una fonte occidentale, quindi di parte, ma certamente avranno delle basi sicure per dare questi dati. È difficile dire quante forze russe siano state neutralizzate. Senza dubbio hanno subìto un alto tasso di perdite, che incidono sulle loro capacità presenti e future. Da quello che sappiamo i russi stanno usando 120 gruppi tattici. Considerando che ciascuno conta mille uomini, si parla di 120mila soldati.
Più o meno la cifra che si diceva sin dall’inizio dell’invasione, non è così?
Sì, perché aggiungendo i servizi logistici si arriva ai circa 200mila uomini, impegnati per mesi nelle cosiddette esercitazioni al confine. La Russia, come tutti i Paesi del mondo, ha poi a disposizione i riservisti. Quindi, tenendo conto che ha una popolazione totale abbastanza ridotta, 144 milioni di abitanti, poco più del doppio di quella italiana, i numeri corrispondono al vero.
L’ex capo del Dipartimento studi per la Russia della Cia, George Beebe, ha detto che l’amministrazione Biden nel suo coinvolgimento così massiccio rischia di dimenticare il pericolo di un conflitto nucleare con la Russia. E che l’iniziativa o la risposta russa potrebbero non lasciare vincitori sul campo. Il rischio di guerra nucleare è concreto?
Come espressione è un po’ semplicistica. La dottrina strategico-militare russa prevede, come ha detto più volte il ministro degli Esteri Lavrov, l’uso delle armi nucleari nel momento in cui il Paese rischia di soccombere. Quindi soltanto come ultima ratio.
Ma la politica di Biden, secondo lei, non spinge in quella direzione, far soccombere Putin e il suo regime?
È vero che Biden ha preso di petto questa situazione, insiste quotidianamente nell’attaccare verbalmente Putin e nel fornire armi a Kiev. È una forma di assistenza diretta nei confronti dell’Ucraina, dove però, lo ha precisato più volte, non ha intenzione di entrare in guerra né come America né come Nato. Questa sua intensa attività verbale gli serve anche per recuperare consensi interni dopo la figuraccia in Afghanistan.
Spostandoci sul campo, come giudica l’inizio dell’evacuazione dei civili dall’acciaieria Azovstal? Ha un significato circoscritto o può preludere a un inizio di dialogo?
Rispetto a qualche settimana fa è una dimostrazione di maggiore apertura da parte russa nei confronti della richiesta dell’opinione pubblica internazionale di risparmiare i civili. E anche per smentire tutta la narrativa occidentale che li dipinge come cattivi che uccidono donne e bambini. Può essere questo il motivo dell’evacuazione dei civili, anche perché poi resteranno solo i militari e i russi potranno così concentrarsi militarmente sull’acciaieria.
Il fronte caldo della guerra è sempre il Donbass?
Da quello che emerge il fronte di pressione nel Donbass, da Kharkiv fino a Mariupol, è una lenta ma progressiva pressione in atto che stringe le forze ucraine.
Negli ultimi giorni si nota un aumento dell’attività militare su Odessa. Perché?
Dalla Transnistria i russi potrebbero mandare verso Odessa, poco distante, le loro forze che già vi sono stanziate per prendere la città alle spalle.
(Paolo Vites)
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