Vladimir Putin ha dichiarato apertamente l’obiettivo della tragica guerra scatenata contro l’Ucraina: installare a Kiev un governo amico, così da riportare l’Ucraina sotto l’influenza russa. Una riedizione in chiave moscovita del principio guida della politica estera degli Stati Uniti dal crollo dell’Unione Sovietica, cioè il regime change. Dalle sue dichiarazioni sull’identità nazionale degli ucraini, Putin sembrerebbe attratto anche da un altro concetto tipico della politica statunitense: il nation building.



Tuttavia, a Mosca dovrebbero essere coscienti che entrambi i concetti si sono rilevati fallimentari per gli Stati Uniti e che rischiano realisticamente di rivelarsi tali anche per la Russia. Basterebbe pensare all’Afghanistan, alla disastrosa ritirata da questo Paese prima dell’allora Unione Sovietica e poi degli Stati Uniti.



Credo sia un errore identificare l’attuale regime moscovita con la defunta Urss, anche se molti degli Stati che la componevano vedono al comando gli oligarchi di quel tempo; un discorso che, dispiace dirlo, riguarda anche l’Ucraina. La situazione reale della Russia mi sembra ben descritta nell’articolo di Fabrizio Foschi sul Sussidiario. Putin prende le distanze dall’epoca sovietica, anzi la condanna per aver frantumato la Russia, una Russia di cui Bielorussia e Ucraina sono parte integrante e inscindibile. È la concezione zarista, dove lo zar era definito di “tutte le Russie”: la Grande Russia, la Russia Bianca e la Piccola Russia, cioè l’Ucraina. La Bielorussia di Lukashenko sembra riportata definitivamente “a casa” senza interventi armati; ora tocca all’Ucraina, che deve essere difesa, oltretutto, dalle mire occidentali.



Una posizione senza dubbio non condivisibile, ma ben chiara fin dall’inizio e che avrebbe dovuto già da anni indurre Stati Uniti ed Europa a un diverso comportamento di fronte alla questione ucraina. Anche perché non è improbabile che la posizione di Putin possa essere condivisa da una parte forse non indifferente di russi.

Gli americani sono stati spesso accusati di fare la guerra a casa degli altri, tenendola distante da casa propria. Tuttavia, nel caso dell’attuale guerra, non va dimenticato che Russia e Stati Uniti sono di fatto divisi solo dagli 83 chilometri dello Stretto di Bering, che separa la Siberia dall’Alaska, venduta agli Usa dalla Russia nel 1867. Forse questa è una delle ragioni per cui Joe Biden ha ripetutamente asserito che non avrebbe mandato soldati a difendere l’Ucraina.

Dando un’occhiata ai commenti dei politici e dei giornali dell’Alaska, questa vicinanza non sembra destare particolare preoccupazione e la guerra in Ucraina sembra essere soprattutto fonte di polemiche interne con Washington. L’Alaska ha cospicue riserve di gas, ma il governo federale non concede autorizzazioni all’estrazione, privilegiando altre aree. Localmente si fa invece presente che l’Alaska potrebbe diventare un forte esportatore di Gnl, particolarmente verso l’Asia, a prezzi decisamente competitivi con quelli dei Paesi del Golfo.

Si eliminerebbero così le importazioni dalla Russia, che è il maggior venditore di prodotti petroliferi agli Stati Uniti. Come riporta Forbes, nel 2021 ha rappresentato il 21% delle importazioni statunitensi, per un valore di 12,78 miliardi di dollari, seguita dal Canada con il 17% delle importazioni. Peraltro, nello stesso anno gli Stati Uniti hanno esportato prodotti petroliferi per quasi 85 miliardi di dollari. L’articolo mette in rilievo, però, che nel 2021 le importazioni dalla Russia valevano l’82% del commercio tra i due Paesi, contro solo il 12% di esportazioni. Sul commercio internazionale totale degli Usa le percentuali sono rispettivamente 62% e 38%. Per l’autore dell’articolo, questo pone qualche difficoltà alla politica di Biden, diretta a imporre restrizioni alle esportazioni verso la Russia; in effetti, in questo caso potrebbero soffrirne direttamente gli americani e non, come di solito, gli europei.

Ritornando alla questione della nazione ucraina, un elemento significativo della difficile situazione è la divisione all’interno della Chiesa ortodossa, con la separazione della Chiesa autocefala ucraina, riconosciuta dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, da quella che si riconosce in unità con il Patriarcato di Mosca. Papa Francesco ha compiuto un gesto significativo con la sua visita all’ambasciatore russo in Italia, ma sarebbe ancor più significativo se il Papa riuscisse a promuovere, insieme ai Patriarchi di Costantinopoli e di Mosca, che ha anch’egli lanciato un appello alla pace, un incontro tra i due Patriarchi ucraini. Un loro appello comune avrebbe forse un risultato anche al Cremlino e sarebbe il seme per un reale riconoscimento reciproco tra gli abitanti di quel devastato Paese.

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