Diceva Joseph Stalin che “la quantità ha una qualità tutta sua”, quando spiegava la volontà della Russia di accettare un numero enorme di vittime in guerra. Andando indietro nel tempo, una leggenda dice che, di fronte alla scena di una catastrofica sconfitta per mano degli svedesi nella battaglia di Narva del 1700 nella Grande Guerra del Nord, lo zar Pietro il Grande fu rassicurato da un aiutante, che disse: “Le madri russe produrranno più figli”. Aneddoti naturalmente (anche se va detto che Putin sta offrendo un milione di rubli a ogni donna che fa più di dieci figli), che però vengono subito alla mente davanti all’ordine di mobilitazione parziale dato da Putin richiamando in servizio 300mila ex militari di leva.



Come ci spiega in questa intervista il generale Giorgio Battisti, già comandante del corpo d’armata di Reazione rapida della Nato in Italia e capo di stato maggiore della missione Isaf in Afghanistan “le guerre moderne non si combattono più con i grandi numeri di soldati al fronte anche perché per rimettere in grado di combattere uomini che hanno prestato un semplice servizio di leva anni fa ci vogliono mesi. Inoltre come hanno detto molti esperti, il motivo dell’attuale situazione dell’esercito russo non è dovuto tanto alla mancanza di personale militare, ma piuttosto a quello che può essere definito un uso negligente delle forze armate, a una scarsa intelligence e a un equipaggiamento insufficiente”.



La prospettiva dunque, nonostante i piani del Cremlino, è che la Russia sia travolta da una ondata di funerali senza ottenere il risultato sperato, “esattamente come successo in Afghanistan” con i cosiddetti “zinky boys”, i migliaia di soldati tornati a casa in bare di zinco.

Il richiamo al servizio di leva di 300mila persone può essere letto in tanti modi, ad esempio mostrare i muscoli in un momento di difficoltà. Lei che opinione ne ha?

Leggendo il testo dell’ordinanza di mobilitazione parziale si parla di riservisti che hanno terminato il servizio militare da non più di cinque anni. Lo stesso ministro della Difesa russo ha affermato che la Russia dispone di un bacino di riservisti di 25 milioni di persone.



Addirittura?

Se contiamo tutti quelli che hanno fatto il militare fino a 65 anni di età è un numero plausibile con una popolazione di 140 milioni di persone. La metà sono 70 milioni, consideriamo quelli dai 18 anni in su e si arriva a quella cifra. La Finlandia ad esempio che ha una popolazione di 6 milioni di persone ha dichiarato che potrebbe schierare nell’esercito un milione di persone. Tutti questi riservisti sono quasi tutti militari di leva, non sono professionisti che hanno fatto operazioni di guerra. Succedeva anche in Italia quando c’era il servizio militare obbligatorio. Finita la leva ricevevi una cartolina che in caso di ipotetico richiamo ordinava di presentarsi in caserma. Qualche volta lo si è fatto come esperimento, per provare se funzionava il meccanismo del richiamo.

Questo significa che questi 300mila nuovi soldati potranno andare al fronte?

Se hanno prestato servizio non più tardi di cinque anni fa non possono essere mandati subito in prima linea, il campo di battaglia non è il modo migliore di addestrare un militare. Anche perché negli ultimi 5-6 anni è cambiato il modo convenzionale di fare battaglie.

In che modo?

La svolta si è avuta nell’autunno del 2020 nel conflitto del Nagorno-Karabakh, dove l’impiego massiccio di droni da parte azera ha spiazzato gli armeni che non se li aspettavano. Queste persone che hanno terminato il servizio militare non sono addestrate a questo nuovo tipo di guerra. Servirebbero almeno 4-5 mesi per fare il minimo necessario. L’impiego di questi militari sarà possibile dopo gennaio dell’anno prossimo.

Quindi la dichiarazione di Putin rappresenta la conferma di una mentalità militare antica e superata?

Il presidente russo ha iniziato questa invasione attaccando un Paese da 50 milioni di abitanti più grande della Francia con non più di 190mila uomini, dunque con una forza inferiore a quella di Kiev. Quello è stato il primo errore: pensava di fare una passeggiata, con i militari russi acclamati da lanci di fiori. In ogni caso, il richiamo di Putin è il primo dal 1941, quando Hitler invase la Russia. Di fatto sancisce che la Russia non conduce più una operazione militare speciale ma è entrata in guerra. Questa mossa si può vedere comunque secondo diversi punti di vista.

Quali?

Dare una scossa sul fronte interno per dire che la Russia tiene e non sarà mai sconfitta, ma anche verso la comunità internazionale. Dopo la sconfitta subita due settimane fa tutti gli analisti affermavano che Putin avrebbe dovuto accettare il cessate il fuoco. Invece questo richiamo e il rinnovato accenno all’uso delle armi nucleari, ma anche i referendum di annessione, rilanciano la sua intenzione di procedere nella guerra usando il pugno duro.

Lei ha alle spalle una carriera militare di lungo corso, segnata probabilmente dallo spettro del ricorso al nucleare. Cosa può dirci in proposito?

Io ho cominciato la mia carriera negli anni 70 durante la Guerra fredda e sono stato in reparti di pronto intervento dell’Alleanza Atlantica. L’arma nucleare come scenario e un suo possibile impiego era prevista e si studiava come prevenire, come reagire e subire meno perdite. C’era in effetti questo incubo continuo sulle nostre teste.

Continui.

Si ipotizzava una risposta flessibile. La dottrina elaborata nel 1967 prevedeva tre fasi, in caso di attacco da parte dell’Unione Sovietica a Paesi Nato. Se i sovietici avessero attaccato in modo convenzionale era prevista una reazione inizialmente convenzionale. Qualora le forze Nato non fossero più state in grado di contenere l’attacco russo era previsto il ricorso alle armi nucleari tattiche.

In che cosa consistevano?

Si tratta di cannoni con il duplice armamento, convenzionale e nucleare, cioè la capacità di utilizzare granate nucleari dalla potenza limitata al massimo a 0,1 o 0,2 chilotoni. Un chilotone sono mille tonnellate di tritolo, la bomba sganciata su Hiroshima conteneva 20 chilotoni. Erano piccole bombe che comunque nel raggio di qualche decina di chilometri creavano tutti gli effetti di una bomba nucleare, il fall-out di polvere radioattiva sul territorio e i suoi abitanti. Sarebbero state usate su concentrazioni di carri armati o per impedire il movimento di truppe. Nessun comandante manderebbe i suoi soldati in una zona contaminata.

E poi?

Il terzo passo era l’impiego progressivo, massiccio e deliberato delle armi nucleari vere e proprie che avrebbe portato al rischio della distruzione di massa.

E oggi come potrebbe andare a finire?

Nessuno che sia sano di mente, e sottolineo il termine, impiegherebbe l’arma nucleare. Ma nella situazione di Putin, che si trova anche davanti a contestazioni interne, qualunque cosa potrebbe essere possibile. Ricordiamo che la rivoluzione russa è nata dalle trincee, quando i soldati si sono rifiutati di combattere, e così è stato anche in Afghanistan, ponendo una delle premesse del crollo dell’Unione Sovietica.

Alcuni analisti sostengono che lo scenario potrebbe essere quello di un congelamento della situazione e di un ritiro della Russia in sé stessa, come la Nord Corea, trincerata nel resistere al costo economico delle sanzioni in corso. Che ne pensa?

Non lo credo possibile. Quando si votò in assemblea generale delle Nazioni Unite chiedendo di condannare l’aggressione russa, diversi Paesi si sono schierati a favore di Mosca, altri si sono astenuti. La Russia non è isolata, è uno dei massimi produttori di gas, petrolio e materie prime di cui la comunità internazionale ha bisogno e anche di grano. Siamo piuttosto tornati ai tempi della Guerra fredda, con il fatto che oggi non c’è più uno scenario bipolare, ma sono emersi sul panorama internazionali nuovi protagonisti.

(Paolo Vites)

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