Il mio compito ormai è terminato. Quantomeno, relativamente alla questione Ucraina. Perché quando Il Foglio è costretto a pubblicare un articolo nel quale timidamente si fa dire a un Premio Nobel che forse Vladimir Putin non è proprio un minus habens che ha sbagliato tutta la strategia, come continuamente ripetuto a reti unificate dai Von Clausewitz da talk-show, allora vuol dire che qualcosa nel meccanismo della narrativa ha cambiato registro. E se il Corriere della Sera arriva a scomodare drammi interiori della banchiera centrale russa, abbandonando la tesi in base alla quale si sarebbe dimessa in protesta con l’operazione militare, il sospetto diventa una quasi certezza.
Non aspettatevi molto da Repubblica e Stampa, in compenso. Al massimo ammetteranno che quelli fra Masha e Orso sono sempre stati rapporti consensuali, oltre non penso che potranno permettersi di andare, stante l’armamentario di panzane e figuracce finora messo in campo. D’altronde non ci voleva molto. Richiama un po’ la logica del troppo puro che alla fine viene epurato: quando si mette troppo zelo nel voler operare debunking, come dicono loro, della disinformazione russa, il rischio è proprio quello di precipitare nella medesima spirale. E nel ridicolo di certe prime pagine degne di Lercio.
Perché la questione non è nemmeno quella legata al presunto bluff del Cremlino sul gas, rivelatosi in realtà l’esatto opposto. Qui c’è un passo ulteriore da compiere, culturalmente: essere così onesti da ammettere che la questione ucraina è strettamente legata a un processo di normalizzazione del politicamente corretto e sua assunzione a new normal. Degli ucraini non frega nulla a nessuno. Almeno, c’è paradossalmente da sperarlo. Perché altrimenti verrebbe da chiedersi, rosi dallo sgomento e dalla rabbia, come mai le piagnucolose dirette H24 cui stiamo assistendo da fine febbraio non siano state fatte, ad esempio, per i massacri di civili perpetrati dai sauditi in Yemen. Carestie ed epidemie comprese. Donne, vecchi e bambini. Uccisi con armi tutte di fabbricazione occidentale. Comprese mine anti-uomo e bombe a frammentazione. Le stesse che se sganciate su Lugansk fanno notizia.
Tradotto senza tanti giri di parole, abbiamo le mani sporche di sangue. Altro che le false sanzioni contro Mosca. Forse il fatto che Ryad possa godere di alcuni buoni uffici politici in Italia e ottimi rapporti con gli Usa e con Israele in chiave anti-Iran a livello internazionale, cancella e resetta tutto? Anche le 81 esecuzioni capitali in un solo giorno di tre settimane fa? Qual è il problema, la differenza? Gli yemeniti sono mediamente meno attraenti degli ucraini? Puzzano? Non hanno un’anima?
E quando i massacri erano perpetrati a parte invertite, in quell’angolo di inferno sulla terra che è stato il Donbass, perché nessuno diceva nulla? Gli stupri di donne russe da parte dei valorosi nazisti del Battaglione Azov non fanno ribrezzo? L’esecuzione degli uomini in età adulta e di leva, andavano bene? I vecchi costretti a lasciare le case, poi debitamente bruciate, non facevano compassione? Eppure il ceppo etnico (evito di usare la parola razza, qui ormai la legge Mancino la usano come fosse il codice stradale) era più o meno lo stesso, impossibile perfino scomodare preferenze di natura lombrosiana nel diverso grado di indignazione. Diciamola tutta, per una volta: questo colossale baraccone mediatico serve per far saltare l’inquilino del Cremlino. E non perché sia un guerrafondaio, un leader autoritario, un macellaio o un ricattatore energetico: lo è sempre stato, stante almeno ai canoni che per il consesso democratico giustificherebbero quelle definizioni. E ci è sempre andato benissimo. Benvenuto e riverito a ogni visita. Il problema è che, semplicemente, nel frattempo ha alzato un muro invalicabile fra il suo Paese e il delirio gender, ad esempio. Perché a Mosca il Gay pride non è appuntamento che goda del patrocinio del Comune, perché nessuno si pone il problema esiziale del terzo bagno nei luoghi pubblici per chi si ritiene fluido o indeciso, perché la cancel culture non attecchirà mai in un Paese che vanta Gogol e Tolstoj nei riferimenti culturali, nel dna, nel sangue e nella carne. O forse infastidisce una Chiesa che fa la Chiesa, questo è abbastanza palese. Poiché questa poca simpatia traspare chiaramente anche in alcuni ambienti Oltretevere, i più illuminati. Forse perché qui le Femen vanno ospiti in tv come fossero moderne Rosa Parks, mentre in Russia se provano a profanare una cattedrale mettendosi in topless sull’altare, finiscono dietro le sbarre.
E da giornalista vi dico, smettiamola anche con la retorica della libertà di stampa e di espressione negata: provate a fare inchieste in Arabia Saudita, tanto per prendere un Paese a caso. E finirete fatto a pezzi in un consolato. Quindi, chiudiamola qui, prima di dover scomodare sgradevoli doppiopesismi collettivi. Qui subentra il vero discrimine. Valido per tutto, in primis proprio per le questioni geopolitiche e di deterrenza. La Russia bigotta, cristiana e arcaica di Vladimir Putin non vuole esportare il suo modello autoritario altrove. Anzi, più la si lascia nel suo brodo, meglio sta. In fondo, un po’ di cortina di ferro è rimasta nell’anima. Non foss’altro perché totalmente sprovvista di arsenali mediatici, social e di entertainment che veicolino un sedicente modello russo verso il resto del Pianeta. Semplicemente, non accetta che qualcuno dall’esterno lo metta in discussione. L’Occidente invece ritiene che il suo modello – i capricci che diventano diritti, lo sradicamento e il relativismo come scusa nobilitatrice del nulla – sia il migliore possibile e così come espande la Nato fino al cortile di casa del Cremlino, accampando ragioni antistoriche e ammantate di ipocrisia fino al midollo (perché se il tuo nemico è anche la tua utility di gas, petrolio, grano e fertilizzanti, o sei bipolare o sei falso come una banconota da 2 euro), così si sente in dovere di esportare le Femen. O il Gay pride. O il Metoo. O la teoria gender.
La Russia non è questo. Non lo è mai stata. E mai lo sarà. La Cina ancor di più. Ovviamente, gli interessi economici sono prevalenti. Ma questi sono valsi sempre e comunque per qualunque guerra. Come qualunque guerra ha sempre imposto un inaccettabile computo di vittime innocenti. Alcune più fotogeniche, altre meno. Qui, però, siano di fronte a un unicum. Chi ha almeno 40 anni e ha vissuto tutto il capitolo di contrapposizione Usa-Islam a partire dalle Guerre del Golfo attraverso l’11 settembre, il delirio neo-con e la lotta permanente al Terrore, sa che si è sempre applicata una logica di figli e figliastri all’informazione di guerra. Qui però siamo al plotone di esecuzione pregiudiziale. Vladimir Putin è uno statista o un criminale di guerra?, i toni utilizzati nei dibattiti sembrano porre questa come unica regola di ingaggio e approccio all’argomento.
Tutti i conflitti hanno beneficiato dei toni di grigio, persino i più atroci come quelli tribali in Rwanda: la questione Ucraina invece è solo bianco o nero. Nonostante un personaggio a dir poco inquietante come il presidente Zelensky, di colpo divenuto meno onnipresente o criminali di guerra come i nazisti di Azov. E la tiepidezza di Israele nel pronunciare condanne massimaliste, unita invece alle parole durissime della Knesset proprio contro i paragoni funambolici dello Zelig di Kiev, dovrebbe far riflettere quegli intellettuali di sinistra – molti anche di religione ebraica – che si lanciano i tuffi carpiati e distinguo onanistici a difesa delle rune ucraine.
Su, facciamo un altro sforzo e ammettiamo tutta la verità. Mettiamola sul tavolo, come il bottino di una rapina. Forse, poi, si potrà davvero sperare in negoziati seri e tregue reali. A meno che qualcuno non voglia sabotare il banco per principio. E interesse.
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