In un recente articolo sul Sussidiario, Giovanni Ricci elenca una serie di eventi connessi con la guerra in Ucraina nei quali, a suo parere, è probabile la longa manus di Washington. In effetti, forti dubbi in tal senso possono sorgere per gli attentati ai gasdotti Nord Stream 1 e 2, che sembrerebbe irragionevole attribuire a Mosca. Un’ipotesi più realistica sarebbe che fossero stati gli ucraini e in tal caso difficile non pensare a una forte “consulenza” americana. Un altro episodio citato è l’assassinio della figlia di Aleksandr Dugin, il filosofo esponente delle correnti nazionaliste russe più anti-occidentali e consigliere di Putin. L’assassinio potrebbe essere il risultato delle lotte interne al regime russo, ma non può essere escluso un appoggio esterno diretto ad indebolire Putin. Così come in quest’area può essere collocata la “rivolta” di Prigozhin, il cui svolgimento lascia effettivamente un po’ perplessi.



Personalmente, la mia perplessità maggiore è sulle ragioni che possono aver condotto Putin a cercare di arrivare fino a Kyiv. Un attacco diretto ad assicurare il controllo del Donbass e dei collegamenti con la Crimea sarebbe stato per Mosca un plausibile esito della guerra che ha afflitto la regione dal 2014. La Russia, in questo caso, avrebbe potuto richiamare l’analogo intervento della Nato sulla Serbia per staccarne il Kosovo. L’invasione dell’intera Ucraina non aveva e non ha, invece, nessuna base di diritto né logica, in più con scarse possibilità di successo, viste le forze in campo. A meno che si mirasse non a una rapida vittoria militare, bensì a una caduta del governo attuale e a una sua sostituzione con uno più allineato con Mosca.



In questa prospettiva, tutto farebbe pensare a una trappola in cui è caduto, o è stato fatto cadere, Putin e la stessa definizione dell’operazione come “denazificazione” parrebbe in linea con questa ipotesi. In altri termini, un parallelo tra la cacciata del filorusso Yanukovich nel 2014 e quella, non riuscita, del filoccidentale Zelensky. Se così fosse, è difficile pensare che la trappola sia stata preparata da Kyiv, perché il suo costo sarebbe stato troppo pesante per il Paese, come infatti è stato. Non è invece così impensabile che la trappola sia stata ordita Oltreoceano, dato che i costi maggiori sono stati sostenuti altrove.



Il popolo ucraino e, a seguire, quello russo sono stati i più colpiti da questa insensata guerra, ma consistenti danni sono stati apportati anche al resto dell’Europa, non solo sotto il profilo economico. In un articolo apparso recentemente sul Financial Times si stimava in 150 miliardi di euro la perdita diretta finora sostenuta dalle grandi imprese europee in conseguenza del ritiro, totale o parziale, dal mercato russo. Si tratta di una stima dei costi diretti, ma le conseguenze della guerra colpiscono tutta l’economia europea nel suo insieme, dato l’aumento dei costi dell’energia, le difficoltà sorte nelle varie catene di rifornimento, l’incremento degli oneri finanziari. Questi costi, che si prevede non verranno recuperati a breve, superano di gran lunga i costi diretti del ritiro dal mercato russo. Più in generale, a tutto questo si può aggiungere la richiesta da Washington di ridurre sempre più i legami, anche economici, con la Cina. Varrebbe davvero la pena di vedere qual è l’impatto sugli Stati Uniti della guerra in Ucraina; la mia impressione è che il confronto sarebbe pesantemente sfavorevole all’Europa.

Anche sotto il profilo politico la situazione per l’Europa è tutt’altro che positiva, con un’Unione Europea sempre più divisa, dietro l’apparente unanime sostegno all’Ucraina. Se un tempo le linee di demarcazione erano geografiche o economiche, si pensi ai “virtuosi Paesi frugali” e ai Pigs scialacquatori, o di guida, la diarchia Germania e Francia, ora la divisione sembra passare tra “atlantisti”, schierati senza se e senza ma con Washington, e “europeisti”, con posizioni più autonome e con minori chiusure aprioristiche verso la Russia, alla ricerca di una fine per questa disastrosa guerra.

Per certi versi sembra di essere tornati al clima della Guerra fredda, dove si fronteggiavano due posizioni opposte e inconciliabili. In realtà, quella situazione era l’esito dell’accordo firmato a Yalta tra Stati Uniti e Unione Sovietica, governata da uno Stalin che, credo, fosse un dittatore più violento dell’attuale Putin. Ora non vi è più nessun accordo per una così netta divisione e gli attori con più o meno voce in capitolo, o carte da giocare, son ben più di due. Sarebbe il caso di tenerne conto e a Washington dovrebbero chiedersi se un indebolimento dell’Europa, forse utile a una parte dell’industria americana, sia nel reale interesse degli Stati Uniti.

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