Il Pil che cresce del 2,2%, gli oligarchi che investono nel mercato interno, i brand occidentali sostituiti da quelli russi, gas e petrolio venduti a Cina e India ma anche all’Europa attraverso delle triangolazioni. Per non parlare della crescita della ristorazione, dell’edilizia e, naturalmente, dell’industria bellica. Tutti elementi che il Washington Post e il giornalista russo in esilio Mikhail Zygar mettono in fila per concludere che Putin è più in sella che mai. Nonostante la guerra e le migliaia di morti che i russi si trovano a contare, il presidente russo, contrariamente a quello che dicevano le cassandre occidentali, è ancora in auge. I suoi metodi più che sbrigativi per togliere di mezzo gli oppositori e le difficoltà comunque affrontate relativamente al conflitto in Ucraina, che sta durando molto più a lungo di quello che si pensava, non sono ancora elementi sufficienti per metterlo con le spalle al muro. Almeno così pare.
In un clima da Russia contro tutti e con una guerra che volge al meglio, spiega Marco Bertolini, generale già comandante del Coi e della Brigata Folgore in numerosi teatri operativi, tra cui Somalia, Afghanistan, Libano e Kosovo, la società si è ricompattata contro i nemici esterni e ha messo sotto il tappeto il dissenso. Questo mentre dagli Usa, al di là dei proclami, arrivano sempre più segnali di disimpegno, come la richiesta agli ucraini di riavere i carri Abrams in cambio dei Leopard, e la posizione di Zelensky è sempre meno solida.
Generale, il Washington Post descrive un Putin saldamente al comando, nonostante guerra ed embargo occidentale. Come ha rafforzato il suo potere?
La guerra, fino a quando va bene, rinsalda i vincoli sociali dei Paesi che sono impegnati a combattere. Oltre un certo livello, invece, si arriva a situazioni come l’8 settembre ’43 in Italia. Se ci sono forti ragioni identitarie si riescono a superare anche dei momenti difficili dovuti alle perdite umane e allo sforzo bellico, come quelli che la Russia sta affrontando. Non è una novità. Anche negli Usa si è sempre detto che i presidenti si sono giovati, in termini di consenso, del clima in cui si è immersi durante un conflitto. Succede soprattutto in Russia perché in questo momento il Paese si sente in guerra contro tutti e l’opinione pubblica si riconosce in quello che viene detto dalla leadership, nella narrazione per cui l’Occidente vuole un mondo unipolare, a guida americana, mentre Mosca aspira a un mondo multipolare nel quale la Russia possa avere voce in capitolo.
Anche le sanzioni non hanno avuto effetto?
Le ha avute pure l’Italia a suo tempo e non hanno avuto grande effetto: ci rifugiammo nell’autarchia. È quello che sta succedendo in Russia: il fatto che stia cercando di sviluppare il mercato interno è una conseguenza delle sanzioni, che hanno ottenuto un effetto contrario a quello annunciato. Gli oligarchi sono stati presi per le orecchie in maniera plateale da Putin in più di un intervento, quasi irridendoli per aver investito all’estero e aver perso i loro soldi bloccati dall’Occidente. Il fatto che anche loro si siano rivolti al mercato interno sta a significare che non è soltanto l’opinione pubblica, meno attrezzata per capire i meccanismi dell’economia, ad aver privilegiato le scelte autarchiche, diverse da quelle cui erano abituati con la Coca Cola, McDonald’s e la moda occidentale, ma ci sono anche coloro che reggono le sorti dell’economia.
La Russia, dopo il no dell’Europa, ha trovato altri clienti a cui vendere gas e petrolio, Cina e India in primis. Ma vende ancora agli europei attraverso altri Paesi. La Ue in questo è vittima di sé stessa?
L’Europa ha bisogno di energia, uno dei colpi peggiori che ha subito è stato il sabotaggio del Nord Stream, che ha intaccato il potere industriale tedesco e non solo. L’energia più facile cui attingere per continuità territoriale è quella russa. Se non può arrivare con un tubo dritto, com’era prima, ci sono mille modi per sopperire a questa mancanza attraverso Paesi terzi. L’Azerbaijan, ad esempio, ma anche la Turchia che svolge un ruolo particolare in generale nei confronti del commercio russo.
Putin come ha potuto mantenere il potere?
Quando è arrivato la Russia era una grande potenza in fase di smobilitazione completa. È riuscito a cambiare le cose grazie alla continuità al potere, che gli è stata garantita anche per il fatto di essere un dittatore. Ci sono state manifestazioni di dissenso nei confronti della guerra e le famiglie dei soldati che sono morti sicuramente non saranno contente, ma la società russa nel suo insieme si sente investita di una missione che la vede combattere contro il resto del mondo o quasi. Evidentemente regge il colpo. E si tratta di un colpo forte, perché ha cambiato completamente il contesto economico: dalla fine della Guerra fredda contava su un rapporto disteso con l’Europa e ora questa prospettiva è stata cancellata, si trova a combattere contro la Nato e anche questa è un’eventualità alla quale non pensava. Se va avanti lo stesso vuol dire che ha delle risorse che non sono solo materiali.
Sul versante ucraino gli Usa avrebbero chiesto a Kiev la restituzione dei carri Abrams promettendo per ogni mezzo quattro Leopard tedeschi in sostituzione. I carri americani potrebbero non essere adeguati alle esigenze dei combattimenti, tanto che gli Stati Uniti vorrebbero premunirsi da eventuali brutte figure che li danneggino dal punto di vista commerciale. Una vicenda dai tratti kafkiani, come si spiega?
Le motivazioni tecniche di una cosa del genere, sempre che sia vera, sono abbastanza strane. Tutte le volte che viene colpito un Abrams o un Leopard è un colpo per l’industria americana o tedesca: è un problema far vedere che questi “supercarri” hanno la peggio. La vicenda però potrebbe essere un segnale del cambio di atteggiamento dell’amministrazione statunitense. Deve fare i conti con la guerra in Medio Oriente, al suo interno ci sono voci dissonanti sul dovere di supportare l’Ucraina e ci sono pressioni su Kiev per ridefinire il livello di vittoria, in modo che non comporti la riconquista di tutti i territori persi. L’episodio degli Abrams è conseguenza di questo nuovo clima.
Anche l’Ucraina non sembra più così granitica nell’affrontare la guerra. Zelensky è sempre più in bilico?
Che ci sia una frattura fra Zelensky e il capo di stato maggiore Zaluznyj è ormai acquisito. Quest’ultimo è accusato dal partito del presidente di non avere una strategia. Un contrasto innestato dagli esiti insoddisfacenti della controffensiva.
L’Ucraina ha rilevanti problemi di personale militare maschile (l’arruolamento sarebbe sceso a 17 anni) e sempre più donne sarebbero arruolate. Ne sarebbero già state assoldate più di 40mila, oltre 5mila già nelle trincee. Come dobbiamo prendere queste informazioni?
Credo che adesso Zelensky stia combattendo per la sua sopravvivenza, non più per quella dell’Ucraina, altrimenti si chiederebbe se può bruciare, oltre a due generazioni di uomini, un’altra generazione di 17enni e le donne. Il fatto di mandarle in trincea è una scelta che definire disperata mi sembra poco, così come è controproducente mandare dei ragazzi. C’è una popolazione che è già decimata, rispetto a quella di prima, con tutte le migrazioni che ci sono state verso l’Occidente e verso la Russia. Se continuano in questa maniera credo che non otterranno nessun risultato pratico sul campo e provocheranno altre perdite.
Sul piano militare, intanto, i russi premono ancora ad Avdiivka. Come mai è così importante per loro conquistarla?
È importante perché è a due passi da Donetsk, capitale di una delle due Repubbliche del Donbass. È una fortezza ucraina, farla cadere è come conquistare Bakhmut.
(Paolo Rossetti)
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