I missili su Kiev aggiungono orrore e preoccupazioni crescenti per la sorte dell’Ucraina e stringono il campo delle possibilità d’azione. Mosca con questo atto dimostrativo sembra mandare un avvertimento chiaro ai Paesi Nato. “Siamo pronti a tutto. Non ci spaventate, le vostre sanzioni e l’aiuto all’Ucraina è inutile e controproducente. Non ci fermeremo fino alla vittoria”.
Intanto la situazione per l’esercito ucraino è sempre più difficile. La ritirata delle truppe ucraine da Severodonetsk – 2mila uomini, quattro battaglioni, un’unità di artiglieria e truppe non identificate – e la fine che sembra prossima di Lysychansk confermano quello che tutti sapevano ma molti negavano. L’assoluto predominio russo sul campo. La forza militare di Mosca non era un dato nascosto, era lì davanti agli occhi di tutti. E non era nemmeno necessario essere degli strateghi o dei generali di professione per capire quanto stava accadendo sul fronte orientale ucraino.
Il fallimento di Putin, madornale errore di calcolo, questo sì, incomprensibile, di non riuscire ad organizzare un colpo di Stato a Kiev che instaurasse un governo amico in sostituzione dell’attuale, ha fatto naufragare per fortuna il primo obiettivo della guerra di aggressione all’Ucraina: la conquista veloce con una guerra lampo della “ribelle” Kiev. Mosca a quel punto è corsa ai ripari ed ha inaugurato il piano B, l’occupazione progressiva di regioni a partire da quelle pretese del Donbass.
Il fatto che l’ex Armata rossa si sia ritirata dalla capitale e che la strategia scelta nel nuovo corso sia stata quella dello schiacciasassi, dell’uso massiccio e lento dei bombardamenti di artiglieria, e che l’esercito russo abbia subito perdite ingenti, ha fatto gridare alla vittoria ucraina e all’inadeguatezza dell’esercito russo. Bastava però guardare una cartina per accorgersi che i deficit di intelligence, di logistica, di errori nella catena di comando non erano sinonimi di debolezza assoluta. Sul terreno, ad oriente, si poteva vedere l’avanzata inesorabile a tenaglia, a semicerchi progressivi sempre più stretti che comporta l’accerchiamento delle forze ucraine a cui rimane una sola scelta, o ritirasi o rimanere circondati in sacche senza nessuna speranza.
Non bastano le decine di armamenti sempre più potenti che l’Occidente sta mandando all’Ucraina, ne servirebbero centinaia con migliaia di colpi e serventi addestrati, assieme ad un’aviazione potente. Ma l’inferiorità delle forze aeree ucraine anche nel campo dei droni è evidente. Ad esempio, davanti alle 300 sortite giornaliere dei velivoli russi, Kiev risponde con 20-30 voli, con il risultato che i tiri della sua artiglieria sono sempre più imprecisi.
In questa situazione, la retorica della resistenza, della guerra fino alla vittoria, fino a scacciare l’invasore a poco serve. E il cambiamento di umore si registra anche nella stampa internazionale più autorevole, come dimostra il dibattito che si è aperto sui giornali anglosassoni.
Il New York Times, facendo proprio un giudizio dell’Institute for the Study of War, centro studi con base a Washington, afferma che la cattura di Severodonetsk equivale ad una vittoria di Pirro perché la città non è di nessuna importanza strategica, in pratica si tratterebbe di una operazione dovuta a “fissazione” ideologica, ed avviene a detrimento delle capacità militari, mancanze che si faranno sentire nel futuro.
Gli ha risposto Asia Times, che ha sollevato a proposito del paragone tra Pirro ed i russi quattro obiezioni. La prima, nella vittoria ottenuta nel 279 a. C. contro i romani, a vincere fu l’esercito più debole, non come in questo caso il più forte sia per numero dei combattenti disponibili che per armamenti. Per quanto riguarda le perdite – secondo punto –, se i russi ne hanno subite di notevoli, lo stesso si può dire per l’esercito di Kiev, anzi forse il numero è maggiore, perché i russi attaccano con l’artiglieria e sottopongono a un fuoco martellante le postazioni nemiche, come nella Prima guerra mondiale. Solo dopo avanzano i carri e la fanteria. La terza obiezione, la più immediata: una vittoria è una vittoria, russi ed ucraini combattono una guerra colpo su colpo e questa volta, i russi sono andati in vantaggio. E vincere per il morale delle truppe non è poca cosa. In ultimo, in una guerra di attrito, modalità che i russi hanno imposto e gli ucraini hanno accettato di combattere, l’esercito con dietro un Paese con una popolazione superiore di quattro volte e con un potere economico in un rapporto di dieci ad uno, quel Paese, cioè la Russia, è destinato a vincere.
Kiev si trova davanti ad una scelta drammatica: resistere, mandare rinforzi nelle aree accerchiate, ritardare l’avanzata russa, ma al prezzo del sacrificio delle truppe migliori, facendo distruggere il Paese e cascando così nel gioco di Mosca. E con il rischio di un cedimento improvviso della sua linea di resistenza, che potrebbe portare le truppe russe ad avanzare fino a dove possono, magari arrivando a conquistare Odessa per condurre negoziati da una posizione di assoluta forza.
Anche Mosca d’altronde si è cacciata in un vicolo cieco che la costringe a insistere nella guerra. La storia russa infatti ha lasciato una dura eredità a Putin. L’esercito russo deve vincere, non può perdere. Ogni sconfitta militare ha significato infatti la fine di un regime. È stato così nel 1905, nel 1918, dopo la ritirata dall’Afghanistan nel 1989.
L’alternativa per Kiev, sempre secondo Asia Times, è quella di uscire dalla retorica, e cercare di salvare il salvabile, cioè cercare di non sottoporre a distruzione e morte le città minacciate, ritirarsi dal fronte del Donbass, provarsi ad attestarsi più a Ovest in terre non contese dai russi.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI