Mentre l’escalation russa in Ucraina continua e i toni tra Washington e Mosca si accendono sempre di più, è necessario andare a decifrare le mosse dei tre attori principali, Russia, Ucraina e Stati Uniti. Prima un po’ di numeri.

Adesso le truppe russe ai confini con l’Ucraina ammontano a 130mila soldati, ben organizzati ed equipaggiati, compreso un nuovo invio di truppe in Crimea di 10mila uomini. Allo stesso tempo, Mosca sta componendo una flotta, dalle 6 alle 10 navi, nel Mediterraneo, giunte dal Mare del Nord attraverso Gibilterra e dal Pacifico passando da Suez allo scopo di arrivare a minacciare dal mare l’Ucraina. A far temere il peggio, è la presenza di mezzi anfibi da sbarco che lasciano pochi dubbi sul loro scopo. Secondo valutazioni del Pentagono l’ammontare delle truppe russe adesso ha raggiunto il 70 per cento della forza necessaria all’invasione.



Allo stesso tempo, avviene quello che era prevedibile, una sintonia di intenti tra la Russia e la Cina che si mostra al mondo in tutta la sua pompa sul palcoscenico delle Olimpiadi invernali.

Mentre Mosca ammassa carri armati, soldati, missili, navi alle porte di Kiev, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ancora parla di pace e dissente apertamente dagli allerta che provengono da Washington. Tuttavia, riceve da Washington sotto gli occhi delle telecamere i potentissimi missili anticarro Javelin di ultima generazione, i droni da combattimento turchi che ebbero un ruolo determinante nella vittoria dell’Azerbaijan contro l’Armenia, oltre a 2mila missili leggeri antitank dalla Gran Bretagna e missili Stinger dai paesi baltici.



Allora sorge la domanda: a che gioco stanno giocando i tre contendenti? Perché il diretto interessato ucraino abbassa i toni, mentre l’amico americano, di cui si invoca l’aiuto, alza il livello dello scontro e Putin nega l’evidenza? Come se fosse un fatto normale, per costi economici e politici, ammassare un esercito alle porte di un  paese a cui Mosca ha già strappato una parte di territorio, la Crimea, e che ha in corso una guerra civile contro i separatisti filorussi nel Donbass.

La risposta non è semplice e i fatti, compresa la propaganda, richiedono un’interpretazione.

Prima domanda, cosa vuole Mosca. Putin non può pensare di ricostruire il territorio del vecchio impero sovietico. Può far male, dare un morso all’Ucraina, staccarne una parte come ha fatto con la Crimea, anche invaderla (un altro conto è dimostrare in seguito di avere la capacità di gestire l’occupazione). La Russia però non può volere quello che non esiste. L’Ucraina non sta entrando nella Nato, né può aspirare ad aderire all’Unione Europea con una guerra in corso.



Mosca ha però obiettivi più ambiziosi. Prima di Putin, già il ministro degli Esteri nonché primo ministro Yevgeny Primakov, voluto da Eltsin, aveva espresso in termini chiari il punto di vista strategico della nuova Russia. La Russia avrebbe dovuto spingere verso un mondo multipolare gestito da un concerto di grandi potenze per controbilanciare la superpotenza Usa. La Russia doveva promuovere un’integrazione sotto il suo primato degli spazi dell’ex Urss e ribadire la politica delle sfere di influenza. La Russia doveva con tutte le sue forze opporsi all’espansione della Nato.

E oggi, con Putin, vediamo all’opera tale dottrina: indebolire la Nato, creare divisioni tra i suoi membri, far esplodere le contraddizioni nel campo nemico attraverso una continua pressione e adoperando tutti i mezzi possibili. Forniture del gas, media, cyber spazio, piano militare, azioni armate per procura. La Russia agisce su tutti i piani, cosicché tutto può diventare campo di battaglia, in un’alternanza di strumenti usata con sapienza alla ricerca della massima vulnerabilità, del punto debole dell’avversario, in modo continuo, implacabile e sotto un’unica regia. Questa è la guerra multistrato, ibrida o come dir si voglia, l’applicazione operativa della dottrina Primakov, sperimentata nella precedente crisi ucraina seguendo i dettami elaborati dal generale Valery Gerasimov. Provocare l’avversario senza arrivare direttamente ed in modo aperto ad uno scontro armato, giocando su più tavoli. Nell’epoca della globalizzazione, dell’interdipendenza tecnologica, finanziaria, commerciale ed economica, la guerra cambia vestito, ma non essenza.

E i risultati adesso sono davanti agli occhi di tutti. La prima a sfilarsi dal gioco, rifiutando la mossa preventiva delle sanzioni, è stata la Germania, che non ne vuol sapere di bloccare la costruzione di Nord Stream 2, seguita a ruota dai paesi dipendenti (al 40 per cento) dal gas russo come l’Italia, che continua i summit economici, come quello del 25 gennaio, con Putin in piena crisi. Con il risultato di far arrabbiare Kiev, Biden e la Nato nonché allarmare i paesi ex sovietici dell’Alleanza. Ecco allora le tensioni tra Berlino e Washington, tutte linee di frattura che si riverberano anche nell’Unione Europea.

Il fatto è che i paesi occidentali non sono abituati, mal sopportano e gestiscono una pressione continua e variegata al limite del conflitto con Mosca. In una parola, sono estremamente vulnerabili alle azioni non lineari russe.

E qui si colloca la risposta di Washington. Innanzitutto, la deterrenza ha la sua logica: non rispondere con la forza e immediatamente alle provocazioni equivarrebbe a dare il via libera a Mosca. Ma i toni durissimi di Biden – che però ha escluso l’invio diretto di soldati a Kiev – potrebbe anche avere un altro significato, quello di costringere l’avversario a fare la mossa sbagliata, cioè spingerlo a compiere un vero e proprio atto di guerra. A quel punto la Nato potrebbe replicare in modo altrettanto duro e chiaro con durissime sanzioni economiche, ed inviando truppe e armamenti nei paesi limitrofi alleati.

Il risultato allora sarebbe evidente. La Russia si riprende un pezzo del suo territorio e della sua identità, l’ego imperiale sarebbe salvo, l’amicizia pelosa col colosso cinese rafforzata, al prezzo però di nuovi e gravi problemi economici, politici e strategici, nonché con un fardello pesantissimo da gestire come l’occupazione dell’Ucraina.

Il conto geopolitico sarebbe quindi salato. Nessuno sfondamento a ovest, anzi Putin davanti si troverebbe un’Alleanza Atlantica più coesa e forte. Questa volta, infatti, sarebbe difficilissimo per gli altri membri dell’Alleanza rifiutarsi di agire. Non solo, da quel momento i falchi neocon a Washington, che hanno sempre richiesto di inviare forze in Ucraina, rialzerebbero la testa.

Il gioco è pericoloso perché il rischio incidenti non pianificati, provocazioni mal gestite e passi falsi è sempre all’ordine del giorno. Le guerre cominciano anche per sbaglio, basta un cretino che spari un colpo di pistola nel momento e nel luogo giusto.

Rimane sul campo per Mosca l’altra opzione di una mossa sempre sul piano militare, ma sotto soglia, ancora al limite, magari dimostrativa, oppure una mossa su un piano diverso da quello militare come un cyber attacco. Tutte azioni che permettano alla Nato di non leggerle come troppo minacciose e quindi consentano sempre a qualche paese di sfilarsi. Non si dimentichi tuttavia che un’azione russa comunque significherebbe milioni di profughi verso i paesi Ue.

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