La guerra in Ucraina apre una nuova fase dei rapporti tra Stati. Quello che era impensabile è avvenuto. Una nuova guerra con decine di migliaia di morti ai confini d’Europa. Nessuno poteva immaginare la determinazione di Mosca nelle sue intenzioni identitarie e di sicurezza, né la sua debolezza strategico-militare, si veda l’errato calcolo di una guerra-lampo.



Non c’è stato nessun analista, politico, generale che avesse previsto una guerra così sanguinosa con decine di migliaia di soldati morti su entrambi i fronti, si dice 40mila, e, secondo dati delle Nazioni Unite, ben 6mila civili uccisi. Basti pensare che gli Stati Uniti nel Vietnam persero 58mila uomini, i sovietici in Afghanistan 26mila soldati e i russi in Cecenia ebbero 5mila caduti.



Guerra mondiale su tutti i fronti, per giunta, destinata a ridisegnare l’orizzonte globale economico e strategico per i decenni a venire. Guerra asimmetrica che Mosca combatte in contemporanea su due fronti, quello militare con le truppe ucraine supportate dalla Nato e un guerra economica contro l’Occidente usando l’arma del gas per rispondere alle sanzioni.

Guerra di lunga durata che sta cambiando i paradigmi dei conflitti contemporanei, con l’utilizzo dei droni, dei missili intelligenti, dell’uso del cyberspazio, ma guerra combattuta sul campo con strategie da Prima guerra mondiale, bombardamenti continui di artiglieria con migliaia di colpi sparati su pochi chilometri, avanzata di carri e poi fanteria. Niente manovre, niente velocità, o per essere precisi, guerra combattuta alla doppia velocità di internet e dei satelliti a cui si accompagna la lentezza della fanteria.



Era evitabile questo strazio? La distruzione di un Paese, l’enorme quantità di dolore che si è abbattuta su innocenti potevano essere risparmiate?

Se affrontiamo la questione con gli strumenti del diritto internazionale e della morale, essere dalla parte della ragione sarebbe motivo sufficiente per analizzare la questione. La teoria della “guerra giusta” riportata in auge dal filosofo della politica Michael Walzer basterebbe a se stessa. In questo caso, un Paese sovrano come l’Ucraina è stato invaso, i suoi confini violati dall’esercito russo. I fatti parlano chiaro, da una parte vi è un aggredito e dall’altra parte un aggressore. Non solo. Un Paese sovrano ha tutto il diritto di scegliersi gli alleati che vuole. Questo è quello che dice il diritto internazionale, articolo 2 paragrafo 4 della carta delle Nazioni Unite. Punto.

Tutto vero, ma la morale e le norme del diritto internazionale non bastano a spiegare la realtà. Se fosse così, non ci sarebbe bisogno della politica. Se fosse, così non ci sarebbero le relazioni internazionali, se fosse così, assieme al diritto il concerto delle nazioni avrebbe costituito una polizia internazionale a cui affidare il compito di mantenere e ripristinare lo status ante aggressione. Ma non le cose non stanno così, la giustizia ha bisogno di gambe concrete per camminare.

Gli Stati hanno un peso diverso fra loro, gli Stati sono in competizione e la politica serve a regolare, gestire il disordine che questa dinamica comporta, a far sì che la gara sia il più possibile pacifica e in caso di conflitti, la violenza sia il più possibile tenuta bassa e che siano forniti alle nazioni tutti gli strumenti per riportare la pace. Per questo le guerre mondiali finiscono con i congressi tra le potenze.

È la storia europea, è la storia del mondo da quando è iniziata la globalizzazione, non l’ultima, ma dalla scoperta del Nuovo Mondo. Il problema di come si mantiene l’ordine internazionale è la conquista faticosa avvenuta all’interno di un’Europa che per secoli è stata teatro delle più sanguinose e distruttive guerre che siano avvenute. Si inizia con la pace di Vestfalia, nel 1648, che segnò la fine delle guerre di religione. Gli elementi costitutivi sono contenuti per il resto dei secoli tutti lì. Non più un mondo diviso tra buoni e cattivi, tra chi ha ragione e chi torto, tra cattolici e protestanti ma tra pari, ognuno sovrano a casa propria dove nessun altro da fuori può dettare legge e ogni cittadino in privato è libero di tenere la propria fede, questa la lezione di Hobbes.

Su queste fondamenta, sul Silete theologi in munere alieno di Alberico Gentili, poi si costruisce l’architettura degli Stati, la soluzione delle dispute territoriali. In parallelo si dà mano alla spartizione tra alcune potenze, quelle più forti, delle terre d’oltre mare. Ma la pace non era uno stato garantito per sempre, che una volta raggiunto si poteva mantenere da solo, una sorta di sistema con pilota automatico inserito. Se l’equilibrio veniva rotto, perché l’originaria partizione era giudicata non più rispondente ai nuovi rapporti di forza, ecco gli strumenti per riportare l’armonia, in primo luogo la creazione della camera di compensazione della diplomazia, che andò in parallelo con l’invenzione delle buone maniere, del parlare e del tacere, dell’intrigo educato. E se proprio non se ne poteva fare a meno, si arrivava alla guerra, all’uso della violenza per ristabilire i nuovi rapporti di forza. Ma era una guerra “en forme”, con i merletti, limitata, regolata da norme e consuetudini, che doveva essere combattuta con regole simmetriche per limitare al massimo i danni e gli effetti indesiderati.

In pratica, la guerra non metteva in discussione i principi della convivenza. L’accordo tra Stati era infatti su due livelli, sulla necessità di riconoscere i rapporti di forza, ma anche e sopratutto sulle norme che regolavano i rapporti tra i sovrani. Europa come comunità di Stati che condivideva la stessa comunità di cultura. Europa unica grande repubblica, unita da relazioni, interessi, cultura, religione, valori, commercio, dagli stessi principi politici e giuridici, con i medesimi costumi. Come avrebbe detto Norberto Bobbio, le norme presentano tre aspetti. Esse infatti si basano su legalità – devono essere espresse da un’autorità che ne abbia il potere, in questo caso il Congresso internazionale –, efficacia – nella realtà esse devono essere rispettate – e legittimità – ispirarsi a principi, valori e consuetudini comuni quale il nuovo nascente diritto internazionale fondato sul concetto di sovranità. Con l’efficacia, la validità concreta, raggiunta tramite un sapiente gioco di pesi e contrappesi, con quella politica di equilibrio di potenza, invenzione pratica prodotta dal genio italico.

È vero. Questo è un modello, un paradigma, ma ha funzionato per centinaia di anni, nonostante alti e bassi e nonostante due guerre mondiali con decine di milioni di morti. Dopo Vestfalia venne il Congresso di Vienna, e poi Versailles e infine Yalta. Ma dopo il crollo del Muro, niente. Nessun accordo tra vincitori e vinti, non sul campo, ma perché l’Unione Sovietica, per usare una metafora calcistica, ormai incapace di reggere il confronto con le altre squadre, si era ritirata dal campionato determinando il fallimento della società.

Ecco il limite, l’errore dell’Occidente, peccato di superbia degli Stati Uniti, che d’altronde non sono più in grado di svolgere una ruolo egemonico assoluto. Errore che, assieme all’insipienza dell’Europa, ha prodotto solo disordine.

Quando si dice guerra in Europa prima dell’ultimo attacco all’Ucraina, si pensa alle guerre cecene, alla Georgia, all’annessione della Crimea. Ci dimentichiamo del disfacimento della Jugoslavia. Quello fu il primo banco di prova internazionale per l’Europa come entità politica. Fallimento completo. A muoversi per fermare la guerra etnica ma anche a dividersi le spoglie furono i singoli Stati nazionali, Germania in testa che fece come al solito i suoi conti economici, e poi la Nato cioè Washington. Ma da Bruxelles non pervenne nessun segnale. L’errore più grave però fu quello di non trarre da quel caso nessuna lezione.

A poco serve adesso addossare le colpe alla Russia, a Putin. Adesso è necessario che chi conta davvero, Russia e Stati Uniti prima di tutto, ritorni alla politica e dica al mondo come si raggiunge per lo meno un cessate il fuoco. All’Europa, imbambolata, rimane il dovere di svegliarsi.

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