La segreta destinazione di tutte le tecniche è rendere artificiale il mondo. È quanto si avvia a essere la politica. Creazione del consenso attraverso tecniche di marketing, elaborazione delle promesse e dei desideri, controllo sociale… La dialettica degli interessi è un cammino troppo lento rispetto alla domanda di velocità che tutti vogliono.
L’Italia ha spesso fatto ricorso ai tecnici – governi tecnici – quali prestatori di competenze non politiche di ultima istanza. Non è mai andata molto bene, a cominciare dal governo Monti.
Il bello è che l’aura di un sapere disciplinare indecifrabile ai più ebetizzò anche le classi dirigenti del Paese. Incantò soprattutto le forze progressiste ormai convinte fin dal fatale 1989 che in economia la maggioranza ha sempre torto, tanto vale occuparsi d’altro (ma per Kenneth Galbraith questa affermazione fu soprattutto una denuncia del cambio di paradigma delle sinistre, del loro abbandono del comune sentire dei ceti popolari e dell’adesione ai modelli dell’establishment).
In quanto “tecnico” Mario Draghi ha in attivo ottime credenziali, ci basti la difesa in Bce del Quantitative Easing contro l’assedio dei paesi “probi”, vocati però alla predazione finanziaria.
Ma cosa c’entra la competenza tecnica con la sua intransigente subordinazione ai dettami di un atlantismo muscolare, sostenuto dagli States e da una Nato rediviva dopo anni di catalessi? Una inaspettata determinazione nella partecipazione alla guerra ibrida contro la Russia. Ibrida perché coinvolge diverse prassi belliche, dalla fornitura (secretata) di armi all’esercito ucraino al contrasto cibernetico, al controllo delle informazioni, alla unilateralità dei media contro il “nemico interno”, ecc…
Una intransigenza, dicevo, che non trova riscontro con il parere della maggioranza dei cittadini contrario a potenziare la guerra con l’invio di armi, sorpresa da uno stato di allarme dove persino le parole pace, tolleranza, trattativa risultano sospette almeno all’intellighenzia, certo più avveduta della moltitudine.
Ma anch’io in piena incertezza mi rivolgo al passato cercando lumi. Azzardo un paragone con uno storico atto di opportunismo strategico.
1855. Cavour è il primo ministro del Regno sabaudo. L’Inghilterra indaffarata a mantenere la stabilità del continente, cioè a limitare velleità di avance espansionistiche, oltre alle proprie, invita il piccolo regno italico a partecipare a una alleanza militare che vede allineati insieme alla stessa Inghilterra, la Francia e l’Impero ottomano, in pieno declino, per contenere le pretese egemoniche della Russia di Nicola I e poi di Alessandro II sulle aree confinanti.
Per Cavour è l’opportunità che inseguiva per entrare nel club dei grandi player del tempo. In vista c’era la rivalsa contro l’Impero asburgico e l’unificazione di quell’“espressione geografica” chiamata Italia in tre regni federati. Tutti sanno come è andata.
L’attualità ha poco a che vedere con quei tempi, ma ci sono delle coincidenze.
Gli Stati Uniti, manu Nato, sollecitano l’Unione Europea a sostenere l’Ucraina contro l’invasione russa: ancora la bandiera degli zar, come se l’Unione Sovietica fosse stata uno iato fugace, ancora quei luoghi, ancora un reggitore della stabilitas globale, per il quale nemmeno una guerra regionale può essere tollerata se rompe il proprio disegno del mondo.
Possiamo supporre che, a proposito di ricorsi, anche la politica estera del nostro presidente del Consiglio sia mossa dal principio enfatico di visibilità? Si può credere che l’Italia abbandoni il provincialismo della infausta politica partitica e pratichi finalmente la politica estera, come impone la regola estroversa di Bismarck?
Ad usum plebis, nell’ultimo G7 a Krün, sono apparsi i reggitori dell’Occidente. Privi di solennità rituale tutti volti alla fattività pragmatica manageriale con cui affrontare la guerra. In maniche di camicia come gli altri c’era lui, la competenza personificata, incredibile espressione di un Paese in perenne stato di sonnambulismo. È a suo agio, compassato, mentre dialoga nella ionosfera della politica internazionale.
Oggi però è in gioco una scommessa molto più rischiosa dell’azzardo di Cavour che comporta l’opzione estrema, quella di concepire come possibile l’apocalisse nucleare.
Intanto ci è stato imposto (ce lo chiede l’Europa!) di aumentare le nostre spese militari del 2% sul Pil. 28,758 miliardi di euro all’anno, 78,8 milioni al giorno. Non è poco in una incerta convalescenza post Covid, con l’inflazione che supera l’8%, in fase di “tosatura” del risparmio, di incremento dei tassi della Bce e in contraddizione logica tra punire la Russia con la sua energia “sporca” a buon prezzo e salvare a caro prezzo il pianeta.
È notorio che l’Italia è il luogo dell’ambivalenza, senza sovranità ci resta solo l’ambiguità in un mondo di sovranità ovvero di interessi espliciti attraversati persino da idealità patriottiche.
È la storia di un Paese che non è mai diventato nazione e che quindi non crede in se stesso. La stessa democrazia, il fiore dell’Occidente, non può esistere senza una forma di omogeneità prevalente.
Credo che non solo per Draghi ma anche per tanta parte del nostro parterre politico la cognizione dell’impotenza e quella sfiduciaria riveli la matrice delle scelte politiche negli ultimi 30 anni. Il giudizio implicito è che il patrimonio di saperi, di bellezza, la nostra mitica proprietà inventiva, la riproduzione della ricchezza delle nostre imprese e in generale la tenuta della cultura del lavoro non siano sufficienti a bilanciare l’incremento del dispendio dovuto anche a un assistenzialismo perpetuo, al lavoro sociale (doni avvelenati del voto di scambio), a vaste rendite di posizione e ai piani alti al neopatrimonialismo. Non c’è bisogno di scomodare Henri de Saint-Simon per sapere che la partita è persa se i parassiti superano i produttori.
Nulla pare spiegare questa desistenza della politica se non la cognizione che l’Italia è data per inemendabile.
È con questo stato d’animo, si presume, che il vertice del vicereame italico nel 1992 appunto trent’anni fa, salì per il fatidico summit sul panfilo Britannia.
Ricordo però che le doti, dimenticate, dalla democrazia rappresentativa sono la liberalità, la dialettica del concreto, il primato dell’interesse nazionale su ogni altra cosa, la non interferenza con la libertà creativa dei cittadini (era il pallino di Einaudi), l’attenzione sulla sorte dei più deboli, il principio di responsabilità e via sognando. Insomma valori onnicomprensivi e inclusivi rivolti verso un orizzonte ideale: “Salvarsi gli uni con gli altri” (Filodemo). Nessun uomo solo al vertice per quanto illuminato può raccoglierli in sé, è compito di un humus plurale ossia di una élite morale.
All’orizzonte ancora navigli inglesi, come ai tempi della Livorno scalo commerciale dell’impero di Nelson e 50 anni dopo della regata delle cannoniere a sigillo del placet alla caduta del Regno delle Due Sicilie.
L’oggetto dell’incontro sul panfilo appartenuto alla Royal Yacht e di proprietà del gruppo finanziario British Invisibles (!) è l’ipotesi di privatizzazione di parte della grande impresa nazionale, secondo l’allora relatore e direttore del Tesoro Mario Draghi, “inizialmente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio”, ma si presume anche per ridefinire il ruolo dell’Italia dopo la fine del mondo bipolare.
Vi partecipano, a pochi giorni dalla firma del trattato di Maastricht, Carlo Azeglio Ciampi governatore della Banca d’Italia, Beniamino Andreatta, Romano Prodi, Giuliano Amato, Giulio Tremonti, Lamberto Dini, Jacob Rothschild, Mario Draghi e alti esponenti della finanza internazionale.
Un parterre de rois di insuperabile legittimità.
Cose note come il fatto che in un certo senso fu proprio il posizionamento strategico del Paese sul bordo della Cortina di Ferro, con il maggiore partito comunista dell’Occidente che diffondeva il verbo sovietico, ad assicurare una qualche limitazione alle pulsioni speculative e predatorie nei nostri confronti lasciandoci raggiungere livelli di produzione industriale competitivi e una bilancia commerciale invidiatissima.
Il paese più americanizzato del continente, irenista per abbandono morale, dimentico del proprio passato, che non vuole interpretare né elaborare (a partire dal Ventennio), non può che sottoscrivere la fine della storia, come nell’apologetica di Fukuyama dopo la dissoluzione dell’alternativa comunista.
Non credo che Mario Draghi abbia cambiato giudizio sulla irrimediabilità del Male Nostrum, ognuno può elencare le insanabili contraddizioni che umiliano il Paese e che quindi ci umiliano. Come ripetiamo da sempre: non c’è rispetto di sé se non c’è rispetto di appartenenza.
Per questo credo nella responsabilità etica, al di là degli esiti dei nostri atti. L’adesione unilaterale e intransigente di Draghi alla hybrid Warfare forse risponde alla necessità di una riconversione radicale di un Paese che non ha saputo o voluto opporsi a una classe dirigente politica e istituzionale inadeguata soprattutto sul piano dell’integrità personale.
“Il nostro peccato originale è stato quello di una borghesia che non ha considerato suo il problema dello Stato e lo ha abbandonato nelle mani dei figli dei poveri”, confessa Giuliano Amato. La meridionalizzazione delle istituzioni quale offerta di lavoro sociale e la diffusa indifferenza morale rispetto a un giusto equilibrio tra diritti e doveri hanno fatto il resto.
Draghi punta tutto sul ridimensionamento dell’economia del Cremlino e forse sulla sua debellatio, se così fosse otterrebbe un successo sufficiente per il breve periodo, come fu il dividendo di Cavour nella guerra del 1855, ma nel lungo periodo la guerra ibrida, al di là del suo esito, sarà una categoria ad alto rischio permanente con cui dovremo convivere a lungo come nella guerra dei 30 anni e in fondo nei 45 anni di Guerra fredda.
Il conflitto in corso è solo un capitolo di questa nuova instabilità globale. In questo orizzonte malfermo c’è il rischio che l’Occidente nell’assedio alla Russia di Putin – come a Sebastopoli – non la isoli affatto, anzi possa rimanere isolato in primis sul piano energetico. L’adesione allargata al 14esimo summit Brics lo sta dimostrando.
“La tigre acquattata” (ultimo saggio di Peter Navarro), ovvero la Cina avrà il ruolo che le spetta in questo inquieto scenario.
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