Non si può certo dire che i pacificatori abbiano avuto dalla loro parte un uomo importante, esperto dell’arte della guerra, uno ritenuto da tutti un grande statista, Winston Churchill. Egli, dopo gli accordi di Monaco, quando non era ancora primo ministro, criticando lord Chamberlain, ebbe a dire: “Un pacificatore è uno che dà da mangiare a un coccodrillo sperando di essere l’ultimo ad essere mangiato”. Si sa che Churchill non era un uomo di pace e aveva di fronte a sé Hitler. Puntò, nonostante tutto, alla vittoria e vinse. Certo, poi, anche lui ebbe un momento di debolezza rispetto ai suoi princìpi e a Yalta si mise d’accordo con un certo Stalin che, come coccodrillo, si rivelò più vorace anche di quello tedesco.



Oggi nessuno, a parole, vorrebbe identificarsi con il coccodrillo, ma, di fatto, nessuno è disposto a offrire cibo a qualcun altro perché non si fida di lui. Forse si può dire che nessuno ormai si può fidare completamente degli altri, nemmeno degli alleati. Il caso Prigozhin ne è un esempio. Anche nel campo occidentale, ufficialmente tutto schierato con Zelensky, si mandano le armi, sì, ma con prudenza. E se quello lì non mantenesse i patti e provasse a usarle direttamente contro il territorio russo? Come in parte sta, forse, succedendo. Così la sfida dei pacificatori si fa sempre più difficile.



In questo clima arrivare a una pace che sia una tregua sul piano militare non sembra possibile. È come se i potenti fossero infastiditi da chi lavora per arrivare alla pace. Va bene, fate pure le vostre opere buone, lo scambio dei prigionieri, il ritorno a casa dei bambini, la gestione di un po’ di aiuti umanitari. Per il resto la pace la faremo noi, quando avremo vinto, come in fondo di solito è successo dopo le guerre. Eppure il lavoro dei pacificatori, se non serve a smuovere i potenti, può essere importante per la gente, quei poveretti che aspettano a casa un marito o un bambino, che non sanno trovare più le medicine necessarie.



Costoro sono il popolo per cui ufficialmente si combatte, un popolo che in un clima di odio ha bisogno di fatti di amore disinteressato, un amore che non può non lasciare una traccia anche quando, dopo, bisognerà ricominciare a vivere. Io sono stato battezzato da un prete bergamasco che non era il prete della mia parrocchia. Era però il prete che salvò mio padre dai fascisti nascondendolo nella soffitta della sua canonica. La famiglia di papà non era certo molto cattolica, ma quel gesto, fatto anche a rischio della vita, l’ha segnata per sempre, anche al di là dell’invito a battezzarmi. Chiaro?

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