Caro direttore,

fin dal primo istante della guerra di Putin in Ucraina i media cattolici da Osservatore Romano ad Avvenire hanno assunto due posizioni nette. La prima e principale è stata la condanna dell’escalation definitiva di Mosca. Una deplorazione tanto ferma quanto scontata. Tutti i pontefici contemporanei hanno sempre parlato forte e chiaro contro le “inutili stragi”: non certo ultimo Papa Francesco, angosciato dalla “terza guerra mondiale a pezzi” ben prima dell’assalto a Kiev. Ed è pienamente comprensibile l’amarezza di un Pontefice la cui ultima enciclica è stata un appello alla fratellanza universale come fondamento di un buon futuro.



La voce mediatica dei vescovi italiani non ha però risparmiato toni duri in direzione dell’Europa. L’“immaturità” della Ue avrebbe contribuito in misura determinante a una “disfatta plateale” ai confini orientali del Vecchio Continente. La “responsabilità” di un mosaico di paesi europei – ha scritto Avvenire – è quella di non aver puntato i piedi, di non aver arginato il sistematico dispiegamento di armamenti di nuova generazione da parte della Nato in quelle stesse repubbliche che un tempo facevano parte del Patto di Varsavia e che ora Washington e l’Alleanza hanno affollato di missili a ridosso dei confini russi, ben sapendo che la sindrome dell’accerchiamento è per Mosca un nervo scoperto dall’epoca degli zar”.



È un quadro analitico e critico in sé condiviso da più di un osservatore qualificato. Ad esempio, il generale Marco Bertolini, già comandante operativo interforze Nato in Italia, si è spinto a parlare di “arroganza” occidentale in Ucraina. Rilevare comunque tali accenti sui principali media cattolici non può non suscitare più di una riflessione interrogativa.

La prima è che, se vi sono Paesi sul pianeta che ora stanno “puntando i piedi” contro il bellicismo neo-imperialista russo, sono quelli europei. Sono i Paesi come l’Italia, la Francia e la Germania (assai più della Gran Bretagna “fuggitiva” dall’Unione e rifugio offshore degli oligarchi putiniani) ad aver deciso un’opposizione a Mosca attraverso sanzioni estremamente costose in termini socio-economici, in una situazione resa già difficilissima dagli strascichi della pandemia. Altrove l’invasione dell’Ucraina ha finora prodotto solo silenzi ambigui – anzitutto in Cina o in India – o reazioni rituali e distratte (ad esempio da parte di Israele, pur essendo israeliti sia il presidente sia il premier oggi in carica a Kiev).



Il secondo spunto è strettamente collegato. La Nato – per sua stessa origine e organizzazione – ha negli Usa un “dominus” incontrastato. È Washington – come anche L’Osservatore non ha potuto non rilevare – a dettare strategie e tattiche del blocco militare “occidentale”: anche trent’anni dopo il crollo di quello “orientale”. E se per gli Usa il peso dell’impatto diretto della “Putin’s war” appare limitato, è stata comunque la Casa Bianca a orientare in misura egemonica le discusse mosse Nato sul teatro ucraino. Anzi, è stata la Casa Bianca di Joe Biden, vicepresidente di Barack Obama ai tempi della “rivoluzione arancione” del 2014. È stata quella presidenza “politically iper-correct”, e Nobel per la pace “a prescindere”, a pretendere di esportare la democrazia piazza per piazza: da Tahir al Cairo a Maidan a Kiev, già allora alla maniera pop dei successivi Fridays verdi di Greta. È – oggi in Ucraina – la Casa Bianca obamiana “restaurata” nel 2020 con l’estromissione elettorale di Donald Trump, “male assoluto” anche per la Chiesa cattolica. Ma è un fatto che nel suo quadriennio perfino la Corea del Nord abbia cessato di essere una spina geopolitica nel fianco del cosiddetto Occidente euramericano. Perfino il “mess” siriano è sembrato meno bollente. Perfino il fronte iraniano è parso meno rigido.

Biden, d’altra parte, è un cattolico, il secondo alla Casa Banca dal 1776 dopo John Kennedy. Ed è un altro fatto – un interrogativo ovviamente non destinato a risposta immediata – che le due fra le peggiori crisi geopolitiche del dopoguerra siano associate a JFK e a Biden: la lunga crisi cubana (tentata controrivoluzione anti-Castro alla Baia dei Porci, crisi dei missili sovietici, assassinio di Dallas) e sessant’anni dopo il deflagrare della crisi ucraina. Altre grandi strettoie geopolitiche contemporanee (il Vietnam, il Medio Oriente, la Guerra del Golfo e lo stesso 11 settembre ed eventi seguenti) sono state condivise a Washington fra amministrazioni democratiche e repubblicane. Però ci sono pochi dubbi che la crisi di Cuba nel 1962 e l’avvitamento della crisi ucraina del 2022 abbiano toccato vertici di drammaticità.

Perché proprio con due cattolici alla guida degli Usa, apertamente appoggiati dai Papi regnanti? Kennedy dal Papa della Pacem in terris (che dialogava con Krushev) e Biden dal Papa della Fratelli tutti, che ha ricevuto in Vaticano Putin con più attenzione di quanta ne abbia mostrata per i leader politici europei (peraltro non più apprezzati dal pontefice argentino dei leader religiosi della Chiesa cattolica continentale).

Un’ultima – ma non più laterale – nota a margine riguarda Taiwan: su cui la Cina ha da tempo allungato le proprie mire nazionaliste e “revanchiste” non meno di quanto avesse fatto la Russia sull’Ucraina. Può darsi che lo “strike” di Putin su Kiev abbia nell’immediato “rubato il tempo” – almeno un po’ – a un analogo passo di Pechino nel Mar cinese meridionale. Per l’agenda pastorale e geopolitica della Santa Sede lo scenario tuttavia sembra complicarsi sempre di più. Se l’invasione russa in Ucraina, vista dal Vaticano, è un evento nefasto e inaccettabile, da prevenire “puntando i piedi”, perché ora il cosiddetto Occidente non dovrebbe “puntare i piedi” in anticipo per proteggere Taiwan? Di più: perché non dovrebbe alzare la voce sulla crescente oppressione del regime cinese su Hong Kong? Anche sui cattolici di Hong Kong già oggi e di Taiwan, forse, domani.

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