Stiamo vivendo giorni tragici, ma qualcuno sta ancora commentando gli eventi come se non si fosse accorto che il dramma è già diventato tragedia e una tragedia molto concreta, che tocca le persone e la loro possibilità stessa di stare nel reale e di fronte al reale, cioè di sopravvivere (letteralmente) e di avere una vita umana autentica.
I discorsi con i quali il presidente Putin ha preceduto e accompagnato l’invasione dell’Ucraina sono una testimonianza di questo passaggio.
Nel discorso del 21 febbraio in cui si presentava il riconoscimento delle autoproclamate repubbliche indipendenti del Donbass, la tragedia ha mostrato la sua dimensione onnicomprensiva, toccando la dimensione storica, con una serie di analisi, ricostruzioni e affermazioni che alla realtà della storia ucraina hanno sostituito quella che, nel migliore dei casi, si potrebbe chiamare una fantasia. Che la Ucraina moderna sarebbe una creazione della Russia rivoluzionaria, che questa nuova creazione avrebbe ricevuto dalla Russia solo favori e incrementi di ogni tipo a detrimento della stessa Russia – come è stato detto da Putin – sono tutte fantasie che non hanno nessun riscontro nella realtà storica, se non nel quadro dell’altra fantasia-madre sostenuta dal presidente e cioè che l’Ucraina non sarebbe “semplicemente un paese vicino” ma, anzi, sarebbe “parte inseparabile della nostra storia, della nostra cultura e del nostro spazio spirituale”: affermazione inquietante, per questa idea secondo cui l’Ucraina sarebbe “parte inseparabile” di un unico spazio spirituale, ma affermazione che diventa angosciante dopo che questa estate Putin, in un lungo articolo, aveva precisato per l’ennesima volta che di questo spazio, di cui fanno parte anche Ucraina e Bielorussia, esiste però un’unica vera versione, “l’unica identità russa”.
Quello che sta succedendo adesso, nella sua violenza negatrice del reale, è cosa che era già ben prevedibile molto tempo fa, almeno dal 2005 con la definizione della fine dell’Unione Sovietica come la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo.
La realtà storica è invece molto diversa: l’Ucraina esisteva ben prima della rivoluzione e, in fondo, anche ben prima di Mosca, sia come entità statuale, visto che Vladimir (956-1015 circa) diventa cristiano come principe di Kiev quando Mosca non esisteva ancora e visto che, dopo vicende storiche complesse, già a metà del 1600 ci sono trattati tra la Russia ed entità cosacche che hanno tutte le caratteristiche di un interlocutore statuale a pieni diritti; per non parlare poi di una lingua e di una cultura indipendenti e di una coscienza nazionale tempratasi nel corso di lunghe, secolari lotte contro vicini troppo ingombranti (polacchi e russi).
Ma per arrivare al secolo scorso, alla rivoluzione e a Stalin, non c’è bisogno di particolari conoscenze storiche ultraspecialistiche o di particolari teorizzazioni originali per sapere che l’Ucraina non ha ricevuto dall’Unione Sovietica “favori”, a meno che si possa chiamare un favore la grande carestia degli anni Trenta che ha fatto proprio in Ucraina milioni di morti “grazie” alle politiche scientemente applicate da Stalin per vincere la resistenza dei contadini alla sovietizzazione forzata. Negare una simile verità esce dai limiti della controversia storica, non è neanche un pur discutibile revisionismo storico, ma finisce nella pura ricostruzione orwelliana della storia.
Questa follia è stata preceduta dal “teatrino”, che molti avranno visto nelle varie riproduzioni occidentali, quando il grande maestro ha bacchettato uno dei principali membri del suo Consiglio di sicurezza, il capo dei servizi segreti esteri, Sergej Naryškin, che non si esprimeva bene sulla questione in discussione: riconoscere o meno l’indipendenza delle repubbliche del Donbass, riconoscerla adesso o in futuro (magia degli aspetti verbali russi che il presidente ha ricordato al suo scolaretto), senza però confonderla con un’annessione, come si era invece fatto scappare in pieno stato confusionale Naryškin. Scena penosa che però è qualcosa di più che un teatrino: è presentarsi come maestro di grammatica, maestro di politica, maestro della storia raccontata e poi maestro della storia fatta, perché si racconta di voler riconoscere l’indipendenza, ma tutti sanno che in realtà sarà annessione, cosa che non si può dire, ma poi si fa, se si è davvero, come si crede, padroni del destino degli Stati e della storia.
E poi a questa concezione del mondo sono seguite una serie di atti molto concreti e il dramma, invece di restare farsa, è diventato tragedia: è arrivata la guerra esterna con la fola della “necessaria” denazificazione dell’Ucraina, un paese dove frange neofasciste sicuramente esistono (come ahimè dappertutto), ma dove, finalmente proprio dopo la fine dell’Unione Sovietica, e grazie ai governi successivi, le vittime dell’eccidio nazista di Babij Jar (oltre 30mila morti nei soli primi due giorni, il 29-30 settembre 1941) si sono viste riconoscere la loro identità ebraica, cosa che in epoca sovietica non era mai avvenuta.
E poi è esplosa (o è continuata) anche la “guerra” interna per far fronte a un paese in crisi nel quale l’insoddisfazione per il regime e, in questo caso, l’opposizione alla guerra è ben più ampia di quanto si pensi e di quanto un’informazione occidentale spesso superficiale ci voglia far credere: le manifestazioni contro la guerra sono state un fenomeno quale non si vedeva da parecchio, l’insistenza con la quale la guerra è stata definita da molti intellettuali un “dolore”, una “vergogna” e un “crimine” è stata altrettanto sorprendente (con una petizione, ancora in corso, che dalle 170 firme della prima serata è passata la mattina dopo a 380). E tutto questo è avvenuto in un paese dove prendere posizioni simili è un rischio.
Per chi si lamenta di una presunta passività dell’opinione pubblica russa varrà forse la pena di ricordare come il giorno stesso di queste manifestazioni, a casa di Ol’ga Sedakova, la più grande poetessa russa contemporanea, si sono presentati due poliziotti, per verificare che fosse in casa e che ci restasse, pretendendo addirittura di fotografarla a documentazione del controllo.
Non si dica che non esiste una Russia libera: dipende da noi testimoniarne l’esistenza e prenderne l’esempio per un’alternativa non violenta proprio nel momento della violenza più insensata e ingiustificata.
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