Sasha era, o meglio era stato, un giovane felice. Nato a Tashtagol, villaggio siberiano sugli Altai, era cresciuto libero tra i boschi, dove, come il padre, faceva il guardiacaccia. Per la verità era lui stesso un gran cacciatore, con una mira infallibile. Per colpa del nonno (immaginate che lavoro faceva il nonno) era cresciuto nel mito di Zajcev. No, non quello italiano che gioca a pallavolo, ma il cecchino eroe di Stalingrado.



Sotto le armi, per quel poco che si era ridotta ad essere l’istruzione militare nell’attuale Federazione Russa, naturalmente era stato scelto come cecchino del battaglione. La preparazione dei militari di leva era piuttosto sommaria, ma, si sa, Sasha aveva già maturato per conto suo un’abilità da far invidia a quei sapientoni della Wagner. Per mantenersi in forma era l’unico maschio adulto di Tashtagol che non beveva vodka, e per questo era anche l’unico maschio adulto di Tashtagol che la sera, tornando a casa, non picchiava la moglie.



Del resto come si faceva ad usare violenza alla dolce Nastya, che assomigliava tanto alla Madonnina dell’icona centrale della chiesa di Tashtagol. Anzi, addirittura qualche suo ammiratore un po’ esaltato era convinto che fosse stata Nastya a posare per quel pittore. E non era stato facile convincerlo che l’icona era stata dipinta almeno duecento anni prima. Ma si sa, la vodka fa spesso brutti scherzi!

Come avrete capito Sasha era un uomo tranquillo, buono, rispettoso verso tutti, anche verso gli animali. Se a volte li cacciava, non era per puro divertimento ma per mangiarli, come insegnava la tradizione siberiana: per rispetto verso la natura e l’animale, guai se poi non li mangi. E che non accada di uccidere un animale ancora piccolo. La tranquillità di Sasha non fu molto scossa neanche quando era cominciata la “operazione speciale militare”. Era dal 2014 che quelle teste calde degli ucraini, sia i filorussi, sia i filo-se stessi si combattevano per motivi che a Tashtagol nessuno aveva mai capito. Certo qualche amico, ex commilitone di Sasha, aveva scritto di aver perso i contatti con qualcuno che dopo il servizio militare aveva firmato per essere arruolato. Ma si sa, sembra essere uno sport nazionale per i russi “sparire” per tanto tempo, o per sempre.



Improvvisamente però tutto era cambiato. Sasha era stato mobilitato e insieme a un gruppo di giovani, di cui molti presi anche dalle città, abituati alla vita comoda, di tipo occidentale, era stato mandato in Ucraina.

All’inizio, nella sua santa ingenuità, Sasha era stato persino contento. Aveva diversi amici guardiacaccia della Transcarpazia coi quali una volta aveva partecipato ad una spedizione nel Tien Shan del Kazakhstan. Però ben presto questa nuova spedizione si era rivelata molto diversa. I giovani cittadini, molto più informati del cecchino di Tashtagol, lo avevano avvertito: questa cosiddetta “operazione speciale militare” è una vera guerra e non è del tutto chiaro se noi siamo i cacciatori o la selvaggina.

Al primo assalto fu evidente che loro erano la selvaggina. Gli ucraini, o chi per loro, sparavano ben coperti nelle loro trincee con armi infernali che non sembravano sbagliare un colpo. I soldatini russi cadevano come mosche, incitati a gran voce a proseguire da un altoparlante che a tutto volume li celebrava come futuri eroi della patria. Già, ma Sasha che aveva imparato una efficace tattica militare, non dalla scuola di San Pietroburgo, ma dalla marmotta della taiga: trovò modo di accucciarsi in una buca. “Speriamo che non mi vedano gli ucraini, e neanche quel durak (pirla) che ci sta incitando”. La sera tardi, come le marmotte, Sasha uscì dal buco e quatto quatto tornò indietro. Nessuno si accorse da dove veniva; erano tutti troppo ubriachi per festeggiare l’eroismo degli assalitori di cui il giorno dopo avrebbe parlato il corrispondente della Pravda (ma perché continuano a chiamarla così, se pubblica tante balle?).

Il reduce, eroico suo malgrado, fu inquadrato in un altro reparto e mandato nelle retrovie a riposare. E lì successe un’altra cosa che convinse definitivamente Sasha che lo avevano preso per il naso. Il “riposo” era stato organizzato in un villaggio ucraino appena occupato, cioè liberato (o viceversa?). La sera, come ai vecchi guerrieri di Gengis Khan, fu concesso di “darsi da fare” con le donne, che dolenti o volenti, dovevano omaggiare i vincitori. Sasha non solo non si sentiva vincitore di nulla, ma pensando alla sua dolce Nastya, concluse che, non solo per gelosia, lei non avrebbe approvato quel modo di festeggiare.

E così Sasha si ritrovò da solo in un angolo del villaggio e decise che, con tutto il rispetto per Zajcev, quello di Stalingrado, questo tipo di gloria non faceva per lui. E così al mattino presto, quando tutti, come al solito, erano ancora ubriachi, sgattaiolò via veloce, come la saighà (gazzella) della steppa. Fu così che, non si sa come, dopo due settimane riuscì ad arrivare dagli amici kazaki, guardiacaccia del Tien Shan.

Nastya, che una prima volta aveva ricevuto una lettera di condoglianze che le annunciava che il marito era “disperso”, fu incredibilmente felice nel constatare l’avvenuta “resurrezione” di Sasha in un biglietto che le diceva: “Chiudi l’izba e vieni subito qui nel Tien Shan. C’è una yurta che ti aspetta. E sai, non è poi così male. E ci sono tanti nuovi amici …”.

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