L’attuale panorama mondiale è ricco di problemi irrisolti e uno di questi, il Kashmir, sta venendo con violenza alla ribalta, mettendo a confronto/scontro tre potenze nucleari: India, Pakistan e Cina.

Il problema del Kashmir risale al 1947, quando la conquista dell’indipendenza dalla Gran Bretagna divise la penisola in due Stati: l’India a maggioranza induista e il Pakistan a maggioranza musulmana. Il Kashmir, a maggioranza musulmana ma governato da un principe indù, fu oggetto di due guerre tra i due nuovi Stati, nel 1947 e nel 1965. Il risultato fu una divisione della regione tra India e Pakistan, con una parte minoritaria occupata dalla Cina. La decisione sul futuro del Kashmir era stata demandata a un referendum di cui, dopo più di settant’anni, non si parla più.



L’anno scorso vi è stato l’abbattimento di un aereo indiano e pochi giorni fa gli indiani hanno abbattuto un drone armato pachistano. Il movimento separatista musulmano continua a compiere attentati nella parte indiana del Kashmir e scontri con i militari indiani sono avvenuti anche negli ultimi giorni, seguiti da uno scambio di colpi di artiglieria tra esercito indiano e pachistano.



A questa recrudescenza del conflitto indo-pachistano si aggiunge il grave incidente tra cinesi e indiani in cui sono morti una ventina di militari indiani e non si sa quanti cinesi. A differenza degli scontri del 1975, questa volta senza armi da fuoco per un paradossale rispetto di un accordo del 1996 che ne vietava l’uso. I militari si sono affrontati usando bastoni e mazze ferrate, a più di 4000 metri di altezza sui monti sovrastanti la contesa Galwan Valley. Ovviamente, i due governi si accusano reciprocamente di aver provocato l’incidente.

Come pone in rilievo Francesco Sisci nella sua intervista al Sussidiario, in queste zone i cinesi stanno rafforzando la loro presenza militare per prepararsi a possibili rivendicazioni indiane. Vengono così ampliati i timori di molti Paesi asiatici di fronte alla crescente aggressività di Pechino, non più riservata ai soli Stati Uniti, ma estesa agli Stati vicini, come dimostra la militarizzazione delle isole contese del Mar Cinese Meridionale. Le tensioni con l’India si aggiungono alla gravissima crisi di Hong Kong, con una strategia che privilegia le maniere forti rispetto al soft power utilizzato, per esempio, in Europa e in Africa.



Questa strategia aggressiva può portare a un cambiamento di atteggiamento dei Paesi della regione, portandoli a una maggiore vicinanza, se non direttamente con gli Stati Uniti, con Paesi nella loro area, come Australia e Giappone. Durante la Guerra fredda, l’India fu il principale Paesi dei cosiddetti non allineati, degli Stati cioè che non si schierarono con nessuno dei due blocchi. Una posizione simile è stata finora mantenuta nel conflitto tra Washington e Pechino, ma i recenti incidenti e le minacce che vengono da Pechino possono convincere Nuova Delhi a un cambio di rotta. Una decisione non facile, come evidenzia un interessante articolo del Financial Times, a firma Gideon Rachman, dato che la Cina è il secondo partner commerciale dell’India che, quasi con la stessa popolazione della Cina, rimane ben lontana come potenza economica e militare.

Inoltre, l’area degli scontri attuali non è l’unica contesa tra i due Stati e i cordiali rapporti della Cina con il Pakistan sono un altro segnale d’allarme per l’India.

Dietro l’accelerazione cinese possono esservi questioni interne, come le conseguenze del coronavirus che, al di là delle dichiarazioni di facciata, ha probabilmente messo in discussione l’intero sistema cinese. In questi casi, un nemico esterno può distogliere l’attenzione dai problemi interni, tanto più se non è lontano e potente come gli Usa, ma sulla porta di casa come l’India. Un Paese, tra l’altro, che non nasconde le sue velleità di esercitare un ruolo importante a livello globale.

Non è, tuttavia, da trascurare l’ipotesi che Pechino consideri questo un periodo opportuno per alzare il livello dello scontro, viste le difficoltà in cui si dibatte Washington, con una campagna elettorale convulsa e basata spesso su accuse infamanti, la difficile e controversa gestione della pandemia, la riapertura della questione razziale e la sempre più ampia messa in discussione delle forze di polizia. Per non parlare dei rapporti non proprio idilliaci con gli alleati europei.

Le tutto sommato caute reazioni di Usa e Ue alla questione di Hong Kong hanno probabilmente rafforzato Pechino in questa sua valutazione e, per quanto riguarda il Regno Unito, la dichiarazione di Boris Johnson di voler concedere la cittadinanza britannica a tre milioni di hongkonghesi suona piuttosto come un’accettazione del fatto compiuto.

In questo quadro si possono anche situare le recenti iniziative nordcoreane. È probabile che anche a Pyongyang si pensi di poter approfittare della situazione per fare maggiori pressioni sulla Corea del Sud e rafforzare comunque il regime. La Corea del Nord sembrerebbe l’unico alleato esplicito di Pechino, da cui dipende fortemente, e può rappresentare un’efficace arma di pressione nelle mani della Cina verso gli Stati Uniti e altri Paesi della regione. Tanto più se il potere passasse da Kim Jong-un alla sorella Kim Yo-Yong, più decisa e meno lunatica del fratello, almeno a quanto si può capire.

Insomma, prove generali per una nuova Guerra fredda, anche se gli schieramenti definitivi non sono ancora ben delineati.