Appoggia Hamas nelle sue dichiarazioni pubbliche ma poi espelle alcuni esponenti dell’organizzazione palestinese. Pur essendo nella Nato, prende posizioni molto diverse dai Paesi che ne fanno parte in merito al conflitto Israele-Palestina, anche se poi fa cadere il veto all’ingresso della Svezia nell’Alleanza atlantica accontentando l’amministrazione Usa. Il presidente turco Erdogan ci ha un po’ abituato a questi comportamenti, dettati dalle sue mire dal suo opportunismo politico. Ora però, come spiega Valeria Giannotta, direttore scientifico dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, vuole ergersi a mediatore nella crisi mediorientale, proponendo un piano che prevede la creazione di due Stati (Israele e Palestina) con altre quattro nazioni che fanno da garanti degli interessi dell’uno e dell’altro, due che sostengono i palestinesi e altri due gli israeliani.
Erdogan ha preso posizione a favore di Hamas: una scelta di campo o come sempre, per sé e per la Turchia, pensa a un ruolo di mediatore anche sullo scenario mediorientale?
Entrambe le cose. Il silenzio di Erdogan fin dall’inizio delle ostilità ha sorpreso parecchio: nei conflitti tra Israele e Palestina si era sempre schierato dalla parte del popolo palestinese. Inoltre non è un mistero che la Turchia nel corso degli anni ha ospitato esponenti di Hamas. I contratti tra l’ufficio politico dell’organizzazione e i vertici della presidenza turca sono andati avanti anche negli scorsi giorni: c’è un occhio di riguardo per Hamas, che non viene considerata un’organizzazione terroristica. Dal 2002 a oggi i rapporti di Erdogan con Israele hanno sempre subito degli alti e bassi e la retorica di Erdogan è sempre stata pungente nei confronti di Gerusalemme. C’è stata una crisi diplomatica nel 2010 normalizzata nel 2016, un ulteriore congelamento dei rapporti nel 2018, normalizzato nell’agosto dello scorso anno. Erdogan, comunque, si è proposto come difensore degli oppressi facendo leva sulla carta palestinese.
Perché il presidente turco è rimasto a lungo in silenzio dopo l’attacco di Hamas?
Quando c’è stato il discorso in parlamento al gruppo dell’Akp, il suo partito, in realtà molti da tempo si aspettavano le dichiarazioni di Erdogan: nelle ultime settimane è rimasto in silenzio, al suo posto hanno parlato gli organi della presidenza, le istituzioni preposte alla diplomazia pubblica e il ministero degli Esteri. Si è registrato, tuttavia, un attivismo proprio del ministro degli Esteri Hakan Fidan e anche i media governativi hanno adottato una linea comune di condanna a Israele, incitando le masse a protestare in piazza pacificamente contro gli attacchi ai palestinesi.
Ma a cosa punta veramente la Turchia?
C’è un approccio turco che mira ad elevare Ankara al ruolo di stabilizzatore e leader regionale, tentando di instaurare quello che i policy maker chiamano l’asse di Turchia: questa guerra arriva in un momento in cui l’approccio turco agli affari regionali si è basato su progetti di negoziazione, mediazione e normalizzazione. La grande normalizzazione con Israele poi da ultimo quella con l’Egitto, il dialogo ripreso con la Grecia e anche con l’Armenia.
Ed Erdogan vuole giocare questo ruolo?
È consapevole che la Turchia è collocata in un contesto geografico molto particolare: non fa invidia a nessuno perché ha nemici da ogni parte. Sa che l’insicurezza regionale potrebbe avere degli effetti interni per la stabilità del Paese e per l’economia. La Turchia in questi anni si è dimostrata abile nella mediazione del conflitto tra Russia e Ucraina, è stata il principale attore del corridoio del grano: vuole capitalizzare positivamente i successi che ha già ottenuto.
Come Erdogan vuole risolvere la questione palestinese?
In questo ruolo di mediazione il ministro Fidan, nei suoi viaggi in Egitto, Giordania e Paesi del Golfo ha proposto un meccanismo multilaterale di mediazione di Stati garanti per avvicinarsi a una soluzione del conflitto israelo-palestinese: questo meccanismo prevederebbe quattro Stati garanti, due che perorerebbero la causa palestinese e due che sosterrebbero le ragioni di Israele. La Turchia si colloca a sostegno dei palestinesi. Sui nomi degli altri Stati si sta negoziando. Con il Qatar la Turchia ha un’alleanza molto forte, che fa leva sulla Fratellanza musulmana e sulla questione di Hamas. In queste ore c’è un grandissimo traffico diplomatico da Ankara verso gli altri attori della regione. E c’è anche l’asse con la Russia. Con Mosca c’è comunanza di visione: le ostilità devono cessare quanto prima.
Nel Paese la sua posizione sul conflitto in Medio Oriente è condivisa?
La convenienza di Erdogan e il suo silenzio sono dettati anche da calcoli di politica interna: a marzo ci saranno le elezioni amministrative. Alcuni partiti passati all’opposizione, ma comunque di estrazione conservatrice, si sono dichiarati espressamente a favore di Hamas e della causa palestinese. In particolare con il partito di Ahmet Davutoglu, ex ministro di Erdogan, si sta intavolando una trattativa per farlo tornare all’interno della grande coalizione governativa. E nel gruppo di cui fa capo Erdogan ci sono istanze conservatrici e islamiste molto forti che si scagliano veementemente contro Israele.
Anche nei confronti della Nato Erdogan mantiene comportamenti ambigui: in questo caso si è schierato diversamente rispetto agli altri Paesi dell’Alleanza atlantica. Perché dalla Nato non arrivano mai rimproveri su questo? C’è un patto non scritto per cui l’Alleanza atlantica sfrutta le capacità di mediatore di Erdogan facendone la testa di ponte verso nazioni esterne alla Nato?
La Turchia si è ritagliata nella Nato una sorta di autonomia strategica che le ha permesso opportunisticamente di tutelare i propri interessi, di muoversi liberamente, come abbiamo visto nel rapporto tra Russia e Ucraina. Un’autonomia strategica che ha causato dei mal di pancia. Quello che è passato in sordina è che proprio in questi giorni Erdogan ha ratificato la decisione turca di togliere il veto all’entrata della Svezia nella Nato e ha passato la mano al parlamento: verosimilmente in un paio di settimane la Turchia darà il via ufficiale a questo ingresso. Una mossa ben calcolata che entra in questa diplomazia di bilanciamento alla turca. Un modo per ingraziarsi i partner Nato ma soprattutto l’amministrazione americana, sebbene sia stata apertamente criticata nella gestione del conflitto israelo-palestinese. Ankara tende a bilanciare i propri interessi e a flirtare sia con l’Occidente che con i partner regionali. La decisione di togliere il veto alla Svezia è arrivata anche in contemporanea con quella di espellere alcuni esponenti di Hamas, comportamento contraddetto dalle dichiarazioni dello stesso Erdogan.
Un classico comportamento alla Erdogan?
Esatto. Da una parte la Turchia è utile alla Nato, primo baluardo per le minacce che arrivano dal Sud e dall’Est, e dall’altra il Paese è riuscito a ricavarsi questa autonomia strategica per difendere i propri interessi, che arrivano dalle necessità geografiche. Certo, a volte i limiti sono poco definiti e definibili. Credo che la Turchia, almeno con questa amministrazione, continuerà a giocare con questa sorta di ambivalenza, fermo restando che l’ancoraggio all’Occidente è di fondamentale importanza per la tenuta di Ankara, se non altro per motivi economici e della sua stessa difesa e sicurezza.
Quali sono i rapporti della Turchia con l’Iran e come possono influire sulla definizione di un quadro politico più chiaro in Medio Oriente?
Ankara e Teheran sono competitor storici ma hanno una specie di competizione cordiale: entrambi sono attori che aspirano a una grande influenza regionale e questo li porta a contrapporsi fortemente. In questi giorni i contatti diplomatici sono continuati anche con i vertici iraniani: facendo leva sul rapporto con il Qatar, con l’Iran si cercherà di mediare le posizioni. La Turchia ha sempre più velleità di leadership regionale, che potrebbero mettere Teheran in un angolo. Il confronto, tuttavia, non sarà mai diretto. In ogni caso sono uniti dalla comune simpatia verso Hamas. Credo che l’Iran sia uno degli interlocutori che la diplomazia turca sta cercando di sentire in vista della soluzione che prevede l’individuazione dei quattro Stati garanti. Guardando il medio e lungo periodo Iran e Turchia restano competitor, ma sono sempre attenti a non pestarsi i piedi più di tanto. Si è visto in Siria, dove pur sostenendo interessi diversi sono stati in grado di scendere a patti.
Quante possibilità di riuscita ha il piano turco per risolvere la questione palestinese?
È un piano che fa leva sulla grande conoscenza di tutti i dossier da parte di Hakan Fidan: per più di dieci anni è stato il capo dei servizi segreti in Turchia. Tutta la diplomazia turca sta perorando la causa della mediazione, che ha come ultimo obiettivo quello della creazione di due Stati separati. Il vero problema è che Erdogan viene percepito come colui che sostiene il terrorismo islamico e questa volta non sarà facile far digerire una cosa del genere a un Occidente che si sta sempre più polarizzando. La sua è una proposta che va a cozzare con quella di Macron, che pensa a una coalizione anti-Hamas. Il progetto di Erdogan è molto ambizioso e il tentativo di mediazione in questo caso è molto più difficile di quello tra Russia e Ucraina.
(Paolo Rossetti)
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