L’attacco del 7 ottobre come scintilla per arrivare al redde rationem, a un’escalation che ridisegni il Medio Oriente e cambi, quindi, il destino dei palestinesi. L’Iran che secondo l’intelligence americana avrebbe dato ordine ai suoi alleati nella zona di colpire la presenza Usa, il vertice Hamas-Hezbollah-Jihad islamica a Beirut, forse anche Erdogan che tuona definendo gli uomini di Hamas come dei liberatori, anche se la Turchia nella vicenda vuole ritagliarsi un ruolo da mediatore: tutto sembra ribadire la veridicità di un disegno che comporta l’allargamento del conflitto.
Un’interpretazione che, osserva Marco Lombardi, docente di sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore ed esperto di terrorismo, potrebbe chiarire quale sia il vero obiettivo dell’azione di Hamas, il cui devastante intervento sulla scena mediorientale altrimenti apparirebbe quasi un’iniziativa votata alla sconfitta.
Washington ha rilanciato l’allarme dell’intelligence secondo la quale l’Iran avrebbe dato l’ok agli alleati per colpire obiettivi Usa: cosa cambia questo elemento nello scenario mediorientale?
È un allarme che c’era da qualche giorno e che sta crescendo, tanto è vero che gli americani hanno deciso di alzare il livello di sicurezza in tutti i siti arabi, dal Qatar ad Abu Dhabi: un dato assolutamente confermato.
Sappiamo che l’Iran appoggia Hamas e Hezbollah, ma chi sono questi alleati che sono stati invitati ad agire?
Gli iraniani hanno molti alleati, si fa riferimento a tutti i gruppi presenti nei Paesi dell’area: tanto per fare un esempio, nella guerra yemenita gli Houthi sono supportati dagli iraniani. In tutte le nazioni in cui, al di là del terrorismo, c’è la rottura sunniti-sciiti, Teheran ha sempre salvaguardato tutti i gruppi che per qualche ragione si ispiravano alla sua politica o al suo modo di vedere il Corano. È difficile fare un elenco, anche perché non sono gruppi formali. Quella dell’Iran è una chiamata alle armi per tutti loro contro gli americani. Vedremo chi risponderà: non è neanche detto che vada in porto.
Potrebbero essere anche gruppi di dimensioni ridotte?
Sì, non stiamo parlando di Stati. Comunque di gruppi etnici, religiosi, ispirati dall’Iran. Teheran sostiene tutti gli sciiti e tutti quelli che sono contro una certa parte di mondo, non per niente si ritrova spesso con russi e cinesi.
Si tratta di un sostegno economico?
Hamas riceve almeno dai 70 ai 100 milioni di dollari all’anno dall’Iran. Che non è una cifra enorme, perché probabilmente incassa di più dalle tasse che impone sulle merci che entrano dall’Egitto. In più nel sostegno ci sono le armi e questa volta sembra che ci sia stato anche il coordinamento dell’operazione che ha originato il conflitto. Tra Iran, Hezbollah e Hamas c’è stata una sorta di condivisione delle responsabilità, coordinamento o quant’altro. Comunque c’è stata una sorta di accordo sulla via dell’iniziativa del 7 ottobre.
Ieri si è parlato di un nuovo vertice a Beirut tra Hamas, Hezbollah e Jihad islamica: è una conferma della chiamata alle armi dell’Iran?
Conferma quello che era trapelato pochi giorni dopo il 7 ottobre, che un vertice analogo si era già tenuto dieci giorni prima dell’attacco. Significa che c’è una forma di coordinamento. Hezbollah per quanto ne sappiamo sta ammassando truppe nel Sud del Libano, al confine con Israele.
Perché Hezbollah, vista anche la situazione disastrosa del Libano, avrebbe interesse a entrare più direttamente nel conflitto, più di quello che è stato finora?
Rispondo con un’altra domanda: qual è l’utilità dell’attacco del 7 ottobre per Hamas? Quello che ha fatto non poteva portare l’organizzazione da nessuna parte, non potevano pensare di andare a recuperare territorio. Quell’iniziativa ha avuto il risultato evidente di certificare Hamas come un gruppo terrorista. Il suo comportamento sul terreno, dove ha cercato di ammazzare il più possibile e di portare via degli ostaggi annunciandone la morte e il modo in cui sarebbero stati uccisi in caso di contrattacco, è una modalità tipica di Daesh, Isis, del terrorismo. Se vogliamo essere coerenti con il risultato che ha ottenuto vediamo che si legittima una coalizione anti-Hamas, come fu quella anti Isis, che sembra un po’ quella espressa da Macron in questi giorni.
Quindi quale può essere la vera ragione dell’attacco iniziale?
Se Hezbollah si muovesse, dal punto di vista tattico metterebbe in difficoltà Israele impegnandolo su due fronti. Che vantaggi ha ottenuto Hamas? Quello di essere più screditato di prima, di essere più radicalizzato e di avere ancora più radicalizzato la situazione, che sarà lo stesso risultato che otterrà Hezbollah nel momento in cui attaccherà. Allora il vero obiettivo, visto che non poteva essere politico e neanche militare, poteva essere quello di radicalizzare la situazione, voler portare al redde rationem, al grande scontro definitivo.
L’obiettivo vero, insomma, potrebbe essere stato proprio l’escalation, l’allargamento del conflitto?
L’escalation è coerente alla logica che si è sviluppata finora. Sembra che non ci sia nessuna voglia (e non sto parlando solo di Israele, ma anche di quelli che stanno dall’altra parte) di de-escalation, che si stia puntando ad alzare sempre di più l’asticella, per vedere che cosa succede. È difficile trovare altre spiegazioni.
Questo spiegherebbe perché ci sarebbe stato un vertice prima del 7 ottobre. Ma poi perché ha attaccato solo Hamas?
Potevano attaccare tutti insieme ma hanno fatto tirare la pietra ad Hamas, poi gli altri seguiranno al momento opportuno. Tutto quello che stiamo dicendo sta benissimo con la chiamata anti-Usa dell’Iran e con le minacce degli Hezbollah.
Hamas, tra l’altro, non ha collegamenti solo nell’area mediorientale ma anche in Asia: c’è una sorta di internazionale del terrorismo?
Quella dell’islam, della Umma, è per sua natura una comunità transnazionale. Poi bisogna tenere conto della diaspora dei palestinesi in tutto il mondo: ci sono comunità in Cile, in Sudamerica, da tutte le parti. Su questi due elementi Hamas ha tessuto le sue reti. I palestinesi nel tempo hanno avuto anche grandi connessioni con i gruppi terroristici dagli anni 70 in poi in Europa. C’è, comunque, un legame soprattutto verso Est: Malesia e Indonesia sono profondamente musulmane e sono state sempre molto legate ad Hamas.
Secondo Erdogan gli uomini di Hamas sono liberatori della Palestina. Che ruolo può avere la Turchia in questa vicenda?
La Turchia gioca sempre da sola. Erdogan è in grado di fare i suoi interessi e quelli del suo Paese. Schierarsi, per i turchi, può voler dire cercare un modo per proporsi con un ruolo di mediazione. Un suo schieramento da parte loro non lo vedo come un prendere le armi in favore di qualcuno.
Ma Ankara qualche volta si ricorderà che è anche nella Nato?
Si ricorda benissimo di essere nella Nato ed è la ragione per cui fa queste cose: perché sa che la Nato non ricorda alla Turchia di essere nell’Alleanza atlantica.
Lo scontro tra Israele e l’Onu dopo le parole di Guterres su quello che hanno subito in questi anni i palestinesi può complicare la situazione? Le Nazioni Unite potevano intervenire come garanti di una possibile soluzione?
Sono scettico: l’Onu è un grosso baraccone mangiasoldi che serve a poco. Risolve situazioni perché ci sono accordi che vengono presi fuori dalle Nazioni Unite. Quello che ha detto Guterres non avrà grandi impatti. Non ho fiducia in quello che l’Onu può fare in maniera autonoma.
Per gli elementi di cui disponiamo finora, in sintesi, quello dell’escalation non è uno scenario così campato in aria?
È un pericolo evidente. Non abbiamo nessun segno di de-escalation, anzi ne abbiamo di radicalizzazione della situazione. Ci sono dei tentativi per far calare la tensione da parte di diversi attori internazionali, ma siamo in una situazione ad elevatissimo rischio. Il rischio che la terza guerra mondiale che stiamo combattendo a capitoli da dieci anni diventi sempre di più “on the field”, che cioè vada a finire sul campo e ci coinvolga tutti. La situazione comunque è fluida e dobbiamo essere costantemente pronti a leggerne i segnali.
Nonostante la consapevolezza del pericolo che corriamo gli israeliani l’azione di terra a Gaza la faranno lo stesso?
Gli israeliani hanno dato come spendibili i loro ostaggi e una delle pressioni che il mondo internazionale sta esercitando su di loro è proprio quella, invece, di dare priorità agli ostaggi. La loro spendibilità, però, è alla base dell’intervento di terra. Il ripensamento su un’azione di questo tipo potrebbe avvenire adeguandosi alle richieste internazionali. Altrimenti vedo molta determinazione da parte israeliana, che aumenterà se Hezbollah comincia a dinamizzare di più il confine con il Libano. Israele medierà, ma dovrà tenere conto di tutte le altre reazioni: torniamo all’idea di radicalizzazione. Se Hezbollah attacca con i 50mila uomini che ha messo alla frontiera e le milizie che fanno capo all’Iran cominciano ad attaccare gli Usa, questi sono segnali che spingono alla radicalizzazione e all’intervento sul campo, a Gaza e non solo.
(Paolo Rossetti)
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