Gli obiettivi del governo Netanyahu possono essere quattro: i componenti del governo dei mullah, i siti militari, le strutture petrolifere e quelle nucleari. Gli israeliani (insieme agli americani) starebbero valutando queste opzioni per rispondere all’attacco missilistico di cui sono stati oggetto da parte degli iraniani nei giorni scorsi. Tutte possibilità che rischiano di allargare la guerra, ma anche di mettere in ulteriore difficoltà l’economia mondiale.



Colpire le piattaforme petrolifere di Teheran, spiega Giuseppe Morabito, generale dell’Esercito, fondatore dell’IGSDA e membro del Collegio dei direttori della NATO Defense College Foundation, significa puntare su un produttore che controlla circa il 5% del greggio a livello mondiale. Vorrebbe dire far alzare il prezzo del barile, con conseguenze notevoli anche sull’economia europea. L’Iran vende il petrolio anche alla Cina Popolare, che dovrebbe rivolgersi ad altri fornitori, ma Pechino non sarebbe l’unica a essere danneggiata.



Nella valutazione delle opzioni possibili, Israele dovrà tenere conto delle richieste di Biden di non attaccare siti nucleari e petroliferi. Anche se poi, a decisione concordata e presa, gli USA sosterranno comunque Tel Aviv. Togliere o ridurre all’Iran i proventi del petrolio potrebbe voler dire avere difficoltà interne con la popolazione, e renderebbe più complicato continuare a supportare Hezbollah, Houthi e Hamas.

L’attacco alle piattaforme petrolifere iraniane rimane una delle soluzioni che Israele sta prendendo in considerazione come ritorsione al lancio di missili dei giorni scorsi?



L’anno scorso l’Iran ha realizzato circa 35 miliardi di dollari di entrate grazie al petrolio. Se gli israeliani dovessero prendere di mira i terminali dell’isola dove si trova l’area di Kharg Oil, quella dove è fatto confluire il petrolio che poi è venduto, metterebbero in difficoltà tutta l’economia del Paese. Vorrebbe dire diminuire del 90 per cento le potenzialità dell’export del settore. A parte i problemi ecologici che un’operazione del genere comporterebbe, significherebbe mettere in ginocchio l’economia del Paese, in modo tale da non poter escludere anche proteste e rivolte interne. Senza gli introiti del petrolio e considerando una situazione economica che già in questo momento non è florida, la popolazione iraniana potrebbe anche ribellarsi, creando grossi problemi al regime.

Senza questi soldi sarebbe più difficile anche supportare Hamas, Houthi e Hezbollah?

Il portafogli iraniano è quello. Condurre una guerra di prossimità costa: gli iraniani hanno bisogno dei fondi per sostenere i loro proxy. Con scarsità di risorse dovrebbero fare una scelta: guardare all’interno o guardare all’esterno.

Il petrolio iraniano a chi va principalmente?

C’è l’embargo americano ed europeo. I destinatari di gas e petrolio iraniano non sono occidentali. Prima di tutto c’è la Cina Popolare. Pechino ne ha bisogno per supportare la sua industria e l’Iran controlla circa il 5% del mercato del greggio. Se dovessero esserci problemi di approvvigionamento, anche i cinesi dovrebbero diversificare gli acquisti e rivolgersi a qualche altra fonte. Problemi simili potrebbero esserci anche in India.

Questo potrebbe significare, però, che aumenta il prezzo del petrolio anche per noi?

Se si riduce del 5% la disponibilità del petrolio, i grandi compratori si rivolgeranno ad altri e questo significa che, purtroppo, aumenterà fisiologicamente il prezzo sul mercato mondiale. Qualche esperto ipotizza anche che possa arrivare fino a 100 dollari al barile. Un attacco israeliano alle piattaforme petrolifere iraniane farebbe innalzare i prezzi e conseguentemente creerebbe problemi anche all’economia europea. Se poi gli altri produttori innalzeranno la loro produzione (se non ci hanno già pensato), vedremo come risponderanno i mercati.

Biden ha chiesto inizialmente a Tel Aviv di non colpire i siti nucleari, poi ha chiesto di escludere anche gli obiettivi petroliferi. Quali sono le opzioni in campo dal punto di vista militare?

Colpire le piattaforme petrolifere metterebbe in crisi l’economia iraniana (non per poco) e sarebbe molto inquinante per il Golfo Arabico; rivolgersi ai siti nucleari comporterebbe problemi di possibile ricaduta e dispersione di materiale radioattivo che potrebbe interessare anche i Paesi vicini, con conseguenze su Qatar, Emirati Arabi, Kuwait, Bahrain e Arabia Saudita. Pericoli da tenere in considerazione. Gli israeliani devono valutare tutto questo insieme a Washington. La terza ipotesi è distruggere basi militari iraniane, com’era già dimostrato fosse possibile in aprile, quando furono colpite batterie antiaeree di fabbricazione russa che proteggevano i siti nucleari. Con l’aiuto degli americani e i rifornimenti in volo degli aerei, gli israeliani potrebbero realizzare operazioni di questo tipo. Infine, potrebbero colpire i palazzi del potere, colpendo e distruggendo come hanno già fatto in Libano e Siria. In ogni caso, sicuramente gli USA supporteranno gli israeliani.

Sono tutte soluzioni fattibili?

C’è un altro problema da considerare, quello del sorvolo, sia con gli aerei sia con missili. Gli israeliani dovrebbero sorvolare Giordania, Arabia Saudita, Siria e Iraq soprattutto. Gli ultimi due non hanno capacità antiaerea, i primi due sì.

Di fronte a uno qualsiasi di questi attacchi, l’Iran sarà obbligato a rispondere per l’ennesima volta?

Bisogna vedere se avrà la capacità di farlo. Gli iraniani possono rispondere, anche se negli ultimi due attacchi non hanno dimostrato molto. Duemila chilometri sono tanti (la distanza fra Israele e Iran, nda) e anche la Giordania, nell’ultimo attacco, ha partecipato all’abbattimento dei missili iraniani. Occorre vedere a che punto si vorrebbe portare il livello del conflitto. Poi bisogna vedere quanti Paesi accetteranno passivamente i sorvoli del loro territorio da parte di entrambi i contendenti.

(Paolo Rossetti)

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