I media italiani che hanno strillato gli ennesimi attacchi della Francia all’Italia sulla questione-migranti (salvo ultimissimi “disgeli” cercati dall’Eliseo) hanno poi sorvolato sul perché il Consiglio Ue (massimo livello politico, più importante della Commissione) si sia espresso con toni diversi: le politiche di accoglienza decise nove anni fa a Dublino vanno ripensate, non meno dei parametri economico-finanziari elaborati trent’anni fa a Maastricht.
Chi potrebbe del resto affermare il contrario quando i profughi ucraini in Europa hanno superato gli otto milioni già prima dell’offensiva pre-invernale russa a colpi di missile sulle reti infrastrutturali?
L’ondata migratoria straordinaria dai confini orientali dell’Unione ha investito anzitutto la Polonia, che ha accolto finora un milione e mezzo di rifugiati. Varsavia (che il Presidente Usa Joe Biden ha visitato personalmente) è diventata la vera retrovia militare Nato della guerra “per procura” contro la Russia: e per questo ha beneficiato finora di sostanziosi aiuti finanziari statunitensi. I rapporti fra Polonia e Ue, alla vigilia del 24 febbraio non erano invece molto migliori di quelli fra Mosca e Kiev.
Il Governo conservatore di Mateusz Morawiecki era a Bruxelles sullo stesso banco degli imputati con quello ungherese di Viktor Orban per presunte violazioni dei principi democratici europei. Dieci mesi dopo la Commissione tiene ancora congelati i fondi Pnrr a Budapest, dissonante nell’atteggiamento verso la Russia:. Delle “piazze” di Varsavia – peraltro nel frattempo svuotatesi – nessuno parla o scrive più: nemmeno a Bruxelles. E sono già dimenticate anche le polemiche sui respingimenti di profughi “tradizionali” – dall’Africa e dall’Asia – alle frontiere polacche (sulla questione, fra l’altro, si era registrato un duro scambio fra l’ambasciata polacca in Italia e il quotidiano cattolico Avvenire)…
Intanto a Roma è diventata Premier Giorgia Meloni, presidente di ECR (European Conservatives & Reformists): l’euro-partito cui aderisce il PiS polacco di Morawiecki. E nelle ore concitate della crisi del missile non identificato caduto in Polonia, è con il Premier italiano (reduce da un bilaterale con il Presidente Usa Joe Biden) che quello polacco ha voluto un consulto specifico.
Non è sorprendente, su questo sfondo, che il Presidente francese Emmanuel Macron si mostri nervoso ai limiti dell’isteria. Il nuovo gioco dei migranti indotto dalla guerra russo-ucraina sta diventando – al pari di quello dell’energia – troppo grande per la vecchia Europa tecnocratica e carolingia. Non sembra più possibile continuare a usare la micro-retorica delle Ong o la vecchia bilancia diplomatica di Dublino (la stessa dell’austerity italiana post-2011) per colpire strumentalmente un Governo “sgradito” a Roma. Non sembrano più applicabili “doppi pesi” a senso unico, anche recenti: come gli occhi chiusi dell’Ue davanti ai militari spagnoli che hanno sparato sui profughi africani o a quelli greci che hanno ricacciato siriani e afghani nei lager turchi pagati dalla stessa Ue su pressing tedesco.
La Ue può/vuole/deve accogliere: ma quanti migranti, quali (da dove), con che mezzi finanziari, con quali regole di ripartizione e con quali logiche geopolitiche, dalla demografia all’economia? In ultima analisi: con quale idea complessiva di Europa? È in questa prospettiva nuova che il Governo italiano – certamente gradito a Washington – si sta inserendo in spazi di manovra finora inesistenti: dopo un decennio che ha avuto i suoi punti minimi nel 2019, con l’attacco paramilitare della “capitana Carola” al porto di Lampedusa e il grottesco vertice di Malta imposto al neonato Conte-2 da Ue, Francia e Germania.
Non stanno certamente facendo bene a Macron neppure i reportage della stampa britannica sui “lager di Calais”: sulle migliaia di profughi che la Francia trattiene dai tentativi (sempre più numerosi e rischiosi) di traversata della Manica; a prezzo di simbolici e imbarazzanti rimborsi spese da Londra a Parigi. In Gran Bretagna la questione-migranti si è fatta strada in un dibattito pubblico concitato. La doppia crisi – senza precedenti – del Governo tory ha acceso fari inattesi sullo “splendido isolamento” storico del Regno Unito: peraltro crogiolo di razze immigrate dal tutto il Commonwealth.
Una delle ultime estrosità di Boris Johnson era stata l’idea di esportare profughi in Ruanda (i primi aerei erano già pronti quando la Corte Suprema inglese ha imposto l’alt), interpretando le riserve dell’opinione pubblica e perfino della Corona. Nel contempo in un Paese molto provato da inflazione e recessione – enfatizzate dal difficile decorso di Brexit – il nuovo Premier Rishi Sunak (di etnia indiana) sta rapidamente sterzando verso l’austerity finanziaria, dopo il pauroso sbandamento della sterlina per le scelte del premier-meteora Liz Truss. È stato in questa cornice che la notizia del record del saldo migratorio netto (in attivo per oltre mezzo milione nell’ultimo anno) ha acceso un confronto vasto. Anche perché molti neo-immigrati sono ucraini (e Londra è da sempre decisissima nel sostegno a Kiev), mentre altri sono rifugiati da Hong Kong, l’ex colonia-gioiello che la Cina ha ormai incorporato nella sua “mainland” autoritaria. Anche a Londra – nella cui City sono stati “accolti” anche migliaia di oligarchi russi – non sembra più possibile parlare di flussi migratori per stereotipi frettolosi o ideologici
Un’altra casella emersa – con modalità sue proprie – nel nuovo “grande gioco” migratorio è Israele: Paese affacciato sul Mediterraneo ma solo sfiorato dalle grandi correnti che finiscono per infrangersi sui confini esterni dell’Ue, chiusi o aperti a seconda dei Paesi e delle stagioni. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha avuto un’eco fortissima a Gerusalemme, “attaccata” su due fronti. Il primo è stato segnato dal forte compattamento “occidentale” a sostegno di un popolo aggredito sul suo territorio. Uno scenario in cui i critici di Israele (cresciuti nell’ultimo decennio di leadership nazionalista-religiosa a Gerusalemme) hanno facilmente rinfocolato l’eterna polemica attorno ai Territori palestinesi. Soprattutto dopo gli annessionisti “Accordi di Abramo” benedetti a Washington da Donald Trump. Anche per questo il Governo di destra moderata pilotato da Naftaly Bennett si è dovuto rifugiare in una neutralità sofferta quanto discussa sul conflitto fra Mosca e Kiev. Nell’arco di poche settimane Bennett ha dovuto infine gettare la spugna: non da ultimo per un corollario squisitamente migratorio della crisi geopolitica.
Israele è stato robustamente ripopolato nell’ultimo trentennio da oltre un milione di immigrati dall’ex Urss. Sono tornati nella “Terra dei Padri” principalmente ebrei ortodossi e in un Paese che conta oggi una popolazione di 9,4 milioni, l’impatto è stato rilevante sul piano politico-elettorale. Il lungo “regno” di “King Bibi” è stato sostenuto in misura importante dai partiti della destra nazionalista e religiosa, fortemente ingrossati dagli arrivi russi. Nessun stupore, quindi, che Gerusalemme abbia inizialmente oscillato anche sull’accoglienza dei profughi ucraini messi in fuga da Vladimir Putin.
Oggetto non secondario del contendere politico è stato che le famiglie dei richiedenti rifugio erano spesso miste: con una radice ebraica limitata ad alcuni membri, oppure divenuta nel tempo solo nominale. Tuttavia, la “legge del ritorno” ha continuato finora a parlar chiaro: dal 1950 (con alcuni emendamenti nel 1970) qualunque ebreo, figlio o nipote in linea retta di ebrei voglia trasferirsi in Israele per risiedervi, ne diventa automaticamente cittadino, assieme alle rispettive mogli. E al di là dei profili religiosi o legali, un Paese come Israele poteva offrire una solidarietà rigidamente selettiva fra ucraini ebrei e familiari non ebrei?
La recente vittoria elettorale della destra – con il ritorno alla premiership di Netanyahu – ha tuttavia riacceso il dibattito attorno alla “legge del ritorno”. Alcuni leader del sionismo religioso vorrebbero restringere il diritto al ritorno solo ai figli di genitori ebrei (o convertiti all’ebraismo). L’ipotesi di eliminazione della “clausola del nipote” ha suscitato critiche immediate ed eloquenti anzitutto nella grande comunità ebraica americana, che ha visto subito nell’attacco al “ritorno” un tentativo del “regime Netanyahu” di cristallizzare o maggiormente polarizzare una favorevole mappa demografico-elettorale. È certamente l’ebraismo occidentale (cioè americano) il più “fluido”, il più vulnerabile di fronte a una possibile restrizione del diritto d’accesso dall’esterno alla piena cittadinanza israeliana.
A poche centinaia di chilometri dal canale di Sicilia, l’unica democrazia del Medio Oriente – caratterizzata peraltro da un costitutivo sovranismo – discute dunque se cominciare a “chiudere i porti” al ritorno degli stessi ebrei di una diaspora millenaria e globale. E in questo macro-scenario solo un leader indebolito e spaesato come Macron può pensare di insistere in Europa nella narrazione angusta e propagandistica delle Ong per definizione “buone” contro i Governi italiani (di centrodestra) per definizione “cattivi”: verso migranti che continuano a provenire anche dall’ Africa occidentale francese, tuttora tale.
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