Il fatto di condannare senza riserve l’aggressione di Putin e anche le violazioni di tutti gli accordi internazionali sulle frontiere in Europa non può sostituire la politica estera, altrimenti si passerebbe il tempo a combattere contro tutti i cattivi. Nel caso dell’Ucraina, gravissimo per il futuro dell’Europa, il nostro interesse in quanto europei è quello di non lasciarci trascinare inesorabilmente verso un conflitto, ormai presentato come civile, contro il nostro vicino russo.
L’Unione Europea si è docilmente allineata dietro gli Stati Uniti, quando Washington non ha chiaramente definito i suoi obiettivi di guerra e sembra averli delegati al regime di Kiev. Dobbiamo porre al contrario le nostre condizioni per prevenire un collasso economico e sociale nei nostri Paesi e soprattutto per evitare che l’ingranaggio in corso porti a un incendio generalizzato.
Nel corso dei mesi, infatti, la guerra in Ucraina è diventata una guerra per procura, non dichiarata, tra gli Stati Uniti e la Nato da una parte e la Russia dall’altra. Una guerra che si sta certamente giocando sul suolo ucraino e in parte, recentemente, sul territorio russo. Questa guerra è già una guerra a dimensione globale per le sue ripercussioni economiche, energetiche o alimentari.
All’inizio della guerra gli occidentali non scommettevano molto sulle possibilità dell’Ucraina di resistere a lungo contro la Russia. Si aspettavano una rapida caduta del regime di Kiev e probabilmente credevano nella ripetizione dello scenario che si è visto accadere nel marzo 2014 in Crimea: la popolazione della penisola aveva accolto favorevolmente l’esercito russo e i militari ucraini si erano ritirati senza combattere. È per questo motivo che, all’inizio, non ci sono state consegne di armi massicce dall’Occidente all’Ucraina e la Nato è rimasta molto discreta. L’Europa si è accontentata di applicare sanzioni essenzialmente economiche contro la Russia e di fornire a Kiev alcune munizioni anticarro ed elementi di difesa antiaerea, insistendo sul fatto che né gli americani né nessuno altro avrebbero combattuto direttamente sul campo.
La svolta è arrivata dagli Stati Uniti a partire da metà aprile. Con il fallimento dell’esercito russo già a marzo, la percezione, a Washington, cambiò del tutto: si capì che Putin aveva appena commesso un errore di valutazione di portata storica, sottovalutando completamente la reazione ucraina e sopravvalutando l’efficacia delle proprie forze militari. Contrariamente alle previsioni dei servizi di intelligence russi, il regime di Kiev non era crollato: gli ucraini hanno resistito con tutte le loro forze e l’invasione si è convenuta in un disastro per l’esercito russo. È stato allora che Washington ha capito che la vittoria dell’Ucraina non era impossibile e che in ogni caso c’era l’opportunità di infliggere un colpo molto duro all’esercito russo. Da qui la decisione di fornire agli ucraini sempre più armi per consentire loro di ottenere questa vittoria o, come minimo, per bloccare l’avanzata delle truppe russe infliggendo loro il massimo delle perdite. Il ministro della Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin non dice altro, fissando l’obiettivo per il suo Paese nell’“indebolire la Russia a tal punto che non possa ricominciare”.
Ecco perché numerosi analisti affermano che, qualunque sia l’esito del conflitto, si può, fin d’ora, parlare di sconfitta russa. La Russia non può né conquistare né occupare militarmente e tanto meno conservare l’Ucraina con i suoi attuali mezzi militari. Non può nemmeno sperare di farla tornare nella sua zona di influenza. Con questo conflitto, l’Ucraina si è definitivamente staccata dalla Russia; le è persino diventata molto ostile ed è passata irrimediabilmente nel campo occidentale. La nuova cortina di ferro si è spostata di mille chilometri verso est. E l’Europa?
Per quanto riguarda il sistema di sicurezza in Europa, Putin stesso ha consentito il massiccio ritorno dell’esercito americano in Europa (100mila uomini) e il drammatico rafforzamento dei legami transatlantici. In Europa, la sfiducia nei confronti della Russia si è stabilita in modo duraturo; la Nato che Emmanuel Macron giudicava, solo due anni fa, in “stato di morte cerebrale”, e che Donald Trump minacciava di lasciare, sta meglio che mai e si espanderà. L’ingresso di Svezia e Finlandia trasformerà il Mar Baltico in un lago interamente otaniano che si estende fino a San Pietroburgo. Oggettivamente, per Putin, anche questo è un cattivo affare. Per non parlare nemmeno degli effetti a lungo termine delle sanzioni sull’economia della Russia.
Ma accanto al ruolo determinante, decisivo in questa guerra, degli Stati Uniti ci sono anche i Paesi più ostili alla Russia, che stanno svolgendo un ruolo sempre più rilevante.
Gli europei seguono l’impulso dei Paesi più vicini, quindi più ostili alla Russia – i baltici, la Polonia, la Finlandia, la Repubblica Ceca –, trasmesso dalla Commissione di Bruxelles. Infatti, negli Stati Uniti, e anche in alcuni Stati in Europa, l’idea di indebolire la Russia, di tirarla fuori dal rango delle grandi potenze in modo che non possa mai più intraprendere avventure militari, è espressa più liberamente, senza tuttavia essere mostrata apertamente da Bruxelles, a differenza di Washington. Non sorprende che le proposte più radicali siano venute dalla Polonia o dai Paesi baltici. Così, abbiamo sentito Lech Walesa dichiarare di voler tagliare la Russia a pezzi e ridurre la popolazione di ciò che sarebbe rimasto del Paese a 50 milioni di abitanti. Questa idea era già presente tra i vincitori, nel 1918 e poi nel 1945, quando si trattava della Germania, di cui si voleva rompere definitivamente il potenziale militare, anche industriale, per guarirla dalle sue “pulsioni imperialiste”.
Dietro la volontà di infliggere una sconfitta umiliante alla Russia c’è ovviamente la speranza che Putin non sopravviva e che ci sia necessariamente un cambio di regime a Mosca. Questo è ciò che ha suggerito implicitamente il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki in un’intervista a Le Figaro. Questa guerra non è più presentata come un conflitto territoriale, ma come una “guerra della democrazia contro il totalitarismo”, e Putin come un “criminale di guerra” e un mostro, il che esclude ogni possibilità di dialogo con lui. A cui si risponde, da parte russa, con una logorrea altrettanto definitiva sulla guerra contro l’Occidente, piena di irresponsabili minacce di attacchi nucleari sulle capitali occidentali.
L’altro punto importante è che questa escalation delle sanzioni ha rivelato l’ascesa dei Paesi del Nord-Est a scapito del nucleo storico dell’Ue, vale a dire Francia e Germania. In una delle sue recenti tribune, il primo ministro polacco Morawiecki ha avuto parole molto dure nei confronti della Germania e della Francia. E gli Stati baltici non sono da meno; hanno giocato un ruolo di primo piano nell’adozione di una violenta linea anti-russa.
Abbiamo quindi assistito a uno spostamento del centro di gravità dell’Ue a favore degli stati dell’Europa nord-orientale, che non nascondono di fidarsi più di Washington che di Parigi o Berlino. Questo porta a rendere gli Stati Uniti un membro non ufficiale ma onnipresente dell’Unione, per il loro peso e la loro influenza.
Le velleità di resistenza dei “grandi” europei, Francia e Germania in particolare, sono state gradualmente spazzate via. Olaf Scholz è stato molto criticato da tutte le parti per la sua esitazione a consegnare armi all’Ucraina all’inizio del conflitto, ed Emmanuel Macron per aver passato troppo tempo al telefono con Putin. Entrambi hanno dovuto tornare indietro e piegarsi.
Gli unici che fino a questo momento stanno avendo vantaggio da questa guerra sembrava fossero gli Stati Uniti. “A perfect war”, senza “body bags”, senza morti. Una guerra che consente a Washington di ritrovare pienamente la sua leadership politica in Europa, con una Nato veramente resuscitata. E permette all’industria degli armamenti americana di consegnare armamenti moderni agli alleati per centinaia di miliardi di euro, a cominciare dalla Germania che ha appena deciso di riarmarsi.
Non solo. Ciliegina sulla torta, è una guerra che sostituirà il gas russo con il gas naturale liquefatto (LNG) americano. Infatti la guerra del gas – la rappresaglia di Putin alle sanzioni economiche occidentali – porterà a formidabili conseguenze sociali ed economiche all’interno dell’Ue, per non parlare del rischio reale di un ampliamento del conflitto sul suolo europeo, anche indirettamente, attraverso, ad esempio, un incidente nucleare nella centrale di Zaporizhzhia.
Senza il gas russo, l’economia tedesca, e dietro di essa tutta l’economia europea, sta soffocando e non sarà facile sostituirlo rapidamente. Ci vorranno almeno due o tre anni prima che vengano messi in atto nuovi terminali del gas e che il gas americano, del Qatar o altrove, arrivi in quantità sufficienti a sostituire il gas russo. Non sappiamo come reggerà il sistema economico europeo durante il primo inverno, e l’inverno successivo potrebbe essere ancora più difficile perché avremo difficoltà a ricostituire le scorte di gas.
Ma il paradosso di tutto questo è che, se il conflitto ucraino è ovviamente centrale per il futuro degli europei, questo non è il caso degli Stati Uniti, per i quali questa crisi è in definitiva secondaria. L’Ucraina, ad esempio, non ha giocato alcun ruolo ed è stata a malapena menzionata nelle recenti elezioni di metà mandato, interamente orientate alla questione dell’aborto e della politica interna americana.
Per gli americani, la battaglia per il dominio mondiale si gioca in Asia, non in Europa. Ciò che occupa Biden, molto più della guerra in Ucraina, è l’alleanza anti-cinese con i produttori di semiconduttori che sta attualmente forgiando con Corea, Giappone e Taiwan e in cui Washington investe quasi 500 miliardi di dollari, perché questa è la chiave dell’economia del XXI secolo.
L’Ucraina, per gli americani, è solo un passo verso qualcosa di più importante. Come riassume l’accademico americano Andrew Michta: “Bisogna sbarazzarsi della questione russa per concentrarsi, poi, sulla Cina”.
Tuttavia ciò che molti analisti americani non hanno ancora compreso è che la rottura radicale con la Russia scuoterà totalmente l’equilibrio di potere nel continente eurasiatico. E questo a scapito degli europei. Come non vedere cosa sta emergendo un mastodonte sino-russo che dominerà l’intero “Heartland” eurasiatico? Lo Heartland che si estende dal Volga allo Yangtze e dall’Himalaya all’Artico è il territorio più fertile e più importante, strategicamente, del mondo. Colui che lo controlla, diceva Mackinder, controlla il mondo.
L’Europa sta costruendo non solo una nuova cortina di ferro ma, dietro di essa, una solida alleanza tra Russia e Cina nel continente eurasiatico. Un’alleanza che renderà più vulnerabile la posizione degli europei. Sarà molto difficile controbilanciare la potente alleanza tra l’industria cinese e le materie prime russe. In un tale sistema geopolitico, il rischio è che l’intero continente, compresa la penisola europea alla sua estremità occidentale, sia alla fine dominato dall’alleanza russo-cinese.
Al contrario, l’Europa dipenderà ancora di più dagli Stati Uniti per quanto Riguarda la sua sopravvivenza e sicurezza, proprio quando conterà meno nella strategia americana. In un tale sistema, il Nordamerica potrà ovviamente sopravvivere senza troppi problemi grazie al suo ecosistema interno di creazione di ricchezza e innovazione, al suo mercato interno, alle sue università che sono le migliori al mondo, ai suoi vantaggi tecnologici, al suo dinamismo sociale. Ma l’Europa?
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