Il caso, poi rientrato, del voto a favore da parte di Cina e India di una risoluzione Onu in cui si citava l’aggressione russa dell’Ucraina (New Delhi e Pechino hanno votato sì alla risoluzione riguardante la “Cooperazione tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa”, ma si sono astenute sul singolo paragrafo che menzionava l’aggressione) non deve distogliere la nostra attenzione da quanto sta avvenendo a livello più profondo negli equilibri geopolitici e di conseguenza nel diritto internazionale.
A leggere affermazioni russe e cinesi sull’attuale stato del mondo si ha l’idea di trovarsi davanti a due schieramenti contrapposti frontalmente, Cina-Russia da una parte e Occidente dall’altra, con niente in comune.
Sergej Lavrov, il potente ministro degli Esteri russo, lo ha ribadito in modo assertivo nel suo discorso alle Nazioni Unite del 24 aprile dal titolo esemplare “Multilateralismo efficace attraverso la protezione dei principi della Carta delle Nazioni Unite”.
E così hanno fatto i cinesi in modo più ponderato e meno appariscente, si vedano i due documenti Global Security Initiative (Gsi) al Boao Forum nell’aprile 2022 e il Concept Paper, 21 febbraio 2023.
L’attacco all’attuale gestione degli affari del mondo, pur con accenti e toni diversi, è comune a Cina e Russia e si può riassumere brevemente nell’accusa agli Stati Uniti e ai suoi alleati di promuovere una visione e una gestione concreta delle relazioni tra Stati centrata apparentemente su principi universali quali la democrazia, il libero mercato, i diritti umani, ideali che in realtà coprono, secondo l’accusa, un dominio di una parte privilegiata del mondo ricco erede delle vecchie potenze coloniali bianche. Occidente non solo fautore di una politica ingiusta, ma anche per necessità guerrafondaio, in quanto guardiano di uno status quo incentrato sulla pax americana, ormai minacciata e messa in discussione in modo massiccio e definitivo dall’ascesa di nuove potenze mondiali e regionali che non tollerano più la versione liberal-democratica del vecchio imperialismo. Mosca e Pechino infatti si percepiscono e si comportano come eredi della grande lotta anticoloniale e antimperialista che dal dopoguerra ad oggi ha portato alla fine degli imperi inglese, francese, olandese, alle lotte di liberazione in Asia e Africa.
È a questa continuità storica che si richiama in modo evidente Xi Jinping, che nel documento La posizione della Cina sulla soluzione politica della crisi ucraina ribadisce la necessità di rispettare il diritto internazionale in modo rigoroso, e di sostenere la sovranità (e integrità territoriale) di tutti i Paesi, affidando la risoluzione della complessa crisi ucraina a un tavolo di mediazione politico.
Nel giugno del 1954, l’allora ministro della Cina Popolare Zhou Enlai firmò a Delhi un documento che doveva diventare la pietra miliare della politica estera cinese conferendole una continuità impressionante. Quel testo conteneva – da qui il nome – “I cinque principi fondamentali” alla base delle relazioni tra Stati: rispetto reciproco dell’integrità territoriale e sovranità di ogni Stato, non-aggressione, assenza di interferenze negli affari interni, eguaglianza e mutuo beneficio nei rapporti economici, coesistenza pacifica. Principi che riscossero subito un consenso notevole, prima di tutto dai Paesi del nascente gruppo dei non allineati con in testa l’India, l’Indonesia, la Jugoslavia, che infatti li adottarono nel 1955 alla prima conferenza mondiale del movimento a Bandung, in seguito anche dai Paesi comunisti con in testa l’Urss e infine anche dall’Onu il 1° ottobre del 1957 con la dizione “principi di una coesistenza pacifica”.
Il fatto è che quei principi si accordavano senza nessuna forzatura a due tradizioni di pensiero lontanissime: la storia del diritto internazionale, occidentale, anzi europeo, e la tradizione filosofica sapienziale orientale. Il nome indiano di quel documento è infatti Panchsheel e rimanda ai cinque principi che nel buddismo guidano la vita del monaco. Per quanto riguarda la tradizione occidentale, fu con la pace di Vestfalia nel 1640, alla fine delle guerre di religione, che il nascente concerto degli Stati gettò le fondamenta di quell’ordine che Carl Schmitt definì jus publicum europaeum fondato appunto sulla integrità territoriale, sul rispetto della sovranità, sulla non ingerenza da parte di qualsiasi Stato negli affari interni altrui.
Nel corso degli anni, la Cina si è sempre attenuta a quel documento, facendo diventare il principio di non ingerenza il cardine di ogni sua decisione, come dimostra il suo comportamento in tutte e votazioni alle Nazioni Unite, dall’Iraq alla Siria, e riscuotendo un giusto consenso specialmente dai Paesi del Sud del mondo insofferenti al doppio standard troppe volte applicato dagli Stati occidentali nelle questioni internazionali.
Con il caso dell’invasione dell’Ucraina, palese violazione di quei principi, per di più da parte di un Paese firmatario degli accordi di Helsinki nel 1975, la posizione della Cina si è fatta difficile, perché ha mostrato cosa manca, e mancava, a quelle “tavole della legge” del diritto internazionale per essere attuali, o meglio, efficaci; un vuoto che per Pechino può essere colmato solo dalla politica, unica pratica che unisce volontà, azione e progetto.
Per colmo della storia, dopo otto anni dagli abbracci tra Nerhu e Zhou Enlai, quei principi partoriti da due popoli usciti da guerre di liberazione drammatiche non riuscirono a gestire in modo pacifico la disputa territoriale, che infatti sfociò in guerra vera e propria nel 1962. Il fatto è che a quelle norme mancava un elemento fondamentale che il diritto occidentale aveva invece con fatica e in modo contraddittorio elaborato: i meccanismi cioè di gestione e risoluzione delle crisi, come mostra la storia delle relazioni tra Stati in Europa a partire proprio da quella pace di Vestfalia che sta a fondamento della modernità.
Altro elemento critico, con cui le aspirazioni cinesi a svolgere una funzione leader nel mondo devono fare i conti, è la necessità di integrare quel set di norme con per lo meno altri principi che si sono affermati, in primo luogo quel principio di autodeterminazione dei popoli invocato e valido a corrente alternata, per non parlare del rispetto delle minoranze, come dimostra la questione del trattamento riservato a tibetani e uiguri.
Quello che si può dire è che adesso, davanti all’assenza europea, all’impotenza delle Nazioni Unite, accanto all’astratto universalismo morale e polemologico anglosassone e al legalistico e limitato approccio europeo, sta sorgendo una visione cinese – tutta immediatamente politica – del diritto internazionale a partire dalla gestione dei conflitti, a partire dalle tensioni Arabia-Iran per arrivare alla crisi ucraina.
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