Le notizie intorno all’Ucraina confermano ormai il quadro che si va delineando da un anno a questa parte. L’aggressione russa ha fatto deflagrare, rendendola manifesta, l’organizzazione del sistema-mondo. Crisi sistemica quindi e non solo di un elemento, di un sottosistema regionale.

A conferma basta sfogliare i giornali della settimana, la gerarchia delle notizie è causale. Pechino al centro dello sconnesso pellegrinaggio europeo, immagine plastica della debolezza e delle contraddizioni del vecchio continente. Un mese fa il cancelliere tedesco Olaf Scholz, poi il presidente spagnolo Pedro Sánchez, adesso la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, accolta da una seconda linea del governo cinese, separata in casa con il presidente francese Emmanuel Macron, ricevuto invece in pompa magna. Risultato per l’Ucraina, affermazioni generiche su cui nessuno può dissentire, ma certo non un passo in avanti per la pace, infatti secondo Pechino “l’origine della guerra è complessa e un conflitto prolungato non è interesse di nessuno”. In cambio, per Parigi, accordi economici notevoli, compresa l’apertura di una nuova linea di assemblaggio di Airbus, a segnare la differenza di vedute con gli Stati Uniti sui rapporti da tenere con la superpotenza. Altro che “deterrenza economica” richiesta da Washington!



Nel frattempo, a sottolineare la costanza cinese e la differenza tra parole e fatti, il via alle maxi manovre militari “United Sharp Sword” intorno a Taiwan, una prova di accerchiamento dell’isola, mentre in Florida avveniva l’incontro tra la presidente taiwanese Tsai Ing-wen e il presidente della Camera Usa Kevin McCarthy nonostante le minacce di Pechino. Cina dunque che si colloca al centro dei movimenti geopolitici globali, Paese pivot della ristrutturazione dei rapporti di forza e di potere economico e di sicurezza, come dimostra il secondo round di colloqui tra ministri degli Esteri dell’Arabia Saudita e dell’Iran tenuto nella capitale cinese agli inizi di aprile.



Il secondo gruppo di notizie proviene dall’Europa e molto ci dice sul futuro assetto del continente. Il presidente ucraino Zelensky arriva a Varsavia accolto da tutti gli onori; a suggellare l’amicizia, il conferimento dell’ordine dell’Aquila bianca, la massima onorificenza civile. La Polonia è la retrovia logistica dell’esercito ucraino, accoglie un milione e mezzo di profughi ucraini, è il maggior alleato di Kiev sul continente assieme alla Gran Bretagna, ai Paesi baltici e nordici. Talmente forte è la vicinanza tra i due Paesi in nome del comune nemico russo, da far dimenticare a Varsavia i massacri perpetrati ai danni dei polacchi delle truppe ucraine al fianco dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. E da Varsavia arriva la richiesta di Zelensky di far entrare l’Ucraina nella Nato, richiesta impossibile da accettare perfino dagli Stati Uniti per motivi di opportunità, come ben spiegato su queste pagine da Gianandrea Gaiani.



Il fatto è che la Polonia sta perseguendo un proprio disegno ancora dai contorni generici, ma senz’altro non immediatamente concordato con gli altri alleati, anche se non dispiace ad alcuni circoli americani non solo anti-Putin, ma fortemente antirussi. È quanto si legge ad esempio in un articolo sulla prestigiosa rivista Foreign Policy dal chiaro titolo “È tempo di tornare indietro all’Unione polacco-lituana. Una costruzione creata 700 anni fa che offre soluzioni per l’Europa di oggi” dello studioso Dalibor Rohac, che fa parte del think thank neocon American Enterprise Institute.

Dopo la seconda guerra mondiale Stalin non rese a Varsavia, se non per una piccola parte, i territori abitati da circa 10 milioni di polacchi e acquisiti con il patto Molotov-Ribbentrop del 1939. E ridisegnò d’imperio i confini della nuova Polonia spostandoli ad Ovest. Ecco che con l’aggressione russa all’Ucraina, Varsavia, terra di mezzo per antonomasia, legge una minaccia che viene da lontano, da quelle spartizioni che ne determinarono la fine come Stato per ben tre volte. E aspira ad una rivincita storica, forse sogno e mito più che progetto politico. Riconquistare le terre perdute, spezzare l’orso russo, creare uno spazio geopolitico tra Russia e Germania, riproporre l’Intermarium – Międzymorze in polacco – del Generale Pilsudski, spazio tra Mar Baltico, Mar Nero e Adriatico. Varsavia al centro di alleanze con i popoli baltici, finlandesi, ucraini e caucasici.

Sogno, ideale o progetto politico? Certo è che nel 2016 si è assistito a Dubrovnik alla nascita della Three Seas Initiative (3Si o Tsi) o Baltic, Adriatic, Black Sea Initiative (Babs), e che l’idea di un forte fianco Est della Nato in funzione antirussa non dispiace per niente agli Stati Uniti, che contrappongono alla “vecchia Europa”, bolsa ed economicista, la “nuova Europa” formata dai Paesi dell’Est, più filo-Alleanza Atlantica che amica di Bruxelles.

I mesi futuri ci diranno se la memoria storica polacca prenderà forma politica e in che modo, anche perché il cessate il fuoco ci consegnerà un’Ucraina in ginocchio e con una classe dirigente e istituzioni bisognose di sostegno su tutti i livelli. Possiamo dire però che la posizione geografica, il ricordo di un passato e la percezione di una minaccia esistenziale dettano il tono intransigente, a volte addirittura oltranzista, della dirigenza polacca.

Molto ancora resta da dire sugli avvenimenti in corso. Dalla diffusione di notizie riservate Usa riguardo alla guerra in Ucraina sul New York Times e altri media, alle difficoltà economiche della Russia (con le entrate del petrolio che segnano un -45% rispetto al marzo dell’anno scorso, la produzione militare che stenta a tenere il passo), all’incontro tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e il suo omologo turco, al rebus della partecipazione della Georgia alle esercitazioni con la Nato prima annunciate e poi ritirate. Ma non c’è spazio.

La chiusura però la merita l’entrata ufficiale della Finlandia nella Nato e per diversi motivi. In ordine, l’atto pone fine alla storica neutralità di Helsinki e rappresenta una sconfitta strategica di Putin. Allunga i confini russi da difendere di ben 1.340 Km, trasforma il Mar Baltico in un mare Nato, ottiene una saldatura della Norvegia al resto della Alleanza, costituisce una minaccia notevole alla penisola di Kola, luogo strategico fondamentale per la Russia perché lì ha basi di sottomarini e aviazione dotate di armi nucleari, e minaccia immediatamente San Pietroburgo. Porta in dotazione alla Nato forze armate eccellenti e motivate: ha ancora un esercito di leva a cui si aggiunge una milizia popolare, cioè dispone di un modello di difesa totale, spende per la Difesa più di quel fatidico 2 per cento di dovere per i Paesi Nato, ha un’artiglieria potentissima superiore a quella del Regno Unito.

A fine marzo nella base aerea di Ramstein in Germania, i comandanti delle forze aeree di Finlandia, Svezia, Danimarca e Norvegia davanti al capo del comandante aereo della Nato, il generale James Hecker, che sovrintende anche all’aeronautica militare americana nella regione, hanno firmato un accordo per integrare le aviazioni dei quattro Paesi. Il risultato sarà quello di formare una flotta di circa 250 aerei, creando un’aviazione di forza pari a quella di una media potenza; da sottolineare poi che tutti questi Paesi sono industrialmente all’avanguardia anche nel campo HT e che la Svezia dispone di una propria industria aeronautica.

Le conseguenze di questi fatti sono di vasta portata, alcuni punti meritano di essere sottolineati.

Il primo è che l’Unione Europea sul piano geopolitico, che richiede azione sovrana, non esiste: i singoli Stati si muovono in ordine sparso alla ricerca del loro interesse.

Il secondo: se gli Stati Uniti sono forti in Europa fino a far cambiare strategie economiche a Paesi di rilievo assoluto come la Germania, quando Washington chiede agli alleati europei misure contro la Cina, il discorso si complica, perché il mondo economico attuale è complesso, articolato, interdipendente, tutti fattori che lo rendono indivisibile, pena catastrofi.

Terzo punto, la Cina ha nella guerra in Ucraina una posizione di forza assoluta, win-win, come si dice; qualsiasi sia l’esito, non può far altro che guadagnarci. Se Mosca vince nella sua guerra di aggressione, l’antagonista diretto della Cina, gli Stati Uniti e la Nato, ne escono indeboliti e assolutamente ridimensionati, e Pechino rafforza la sua posizione nello scacchiere mondiale. Se la Russia fallisce, l’Impero di Mezzo acquisisce un vicino ridotto a satellite, retroterra enorme di materie prime a buon mercato. Se la Cina riesce a svolgere il ruolo di mediatore nel conflitto, acquisisce anche il ruolo di potenza dotata di capacità diplomatiche assolute, soppiantando Washington nel ruolo di garante degli equilibri mondiali.

Il quarto punto è che con l’adesione della Finlandia e la Svezia alle porte, tutti i Paesi dell’Ue esclusi Austria, Cipro, Irlanda e Malta sono nella Nato; la guerra in Ucraina ha spostato ad Est il centro di gravità dell’Europa, verso Paesi che si sentono molto più vicini, a partire dalla fortissima Polonia, a Washington che a Bruxelles, facendo chiudere il sogno di una difesa autonoma europea e riducendo di importanza l’Eliseo, che avrebbe voluto essere il regista e perno del futuro esercito.

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