Israele procede con l’operazione militare a Gaza, ma non ha ancora le idee chiare su come comporre la crisi palestinese una volta deposte le armi. Un difetto di strategia che fa il paio con le divisioni sul da farsi evidenziate dal vertice a Riyad tra Lega araba e Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), nel quale, spiega Marco Di Liddo, direttore del Cesi Centro studi internazionali, si è evidenziata la solita frattura fra sunniti e sciiti, con l’Iran che per bocca del suo presidente Raisi lancia appelli per cancellare i sionisti e i Paesi arabi che non vogliono rinunciare agli Accordi di Abramo per normalizzare i rapporti con Israele. Al di là delle schermaglie tra Israele e Hezbollah, con azioni israeliane mirate in territorio libanese e minacce di Nasrallah di colpire gli Usa, da parte di nessuno sembra esserci un vero interesse ad allargare il conflitto.
Resta da definire, invece, appunto, cosa sarà di Gaza e della Cisgiordania dopo la guerra, quale ruolo può avere l’Autorità nazionale palestinese, indicata come interlocutore dall’Occidente ma screditata agli occhi degli stessi palestinesi. Nel campo avverso agli israeliani c’è anche chi pensa che Hamas non possa essere esclusa da una nuova fase politica, ma anzi, che vada inclusa per cercare di gestirla. Insomma, ancora una grande confusione.
Intanto si parla di un possibile accordo per liberare 80 ostaggi (ma anche delle resistenze di Hamas a concludere) e resta il problema degli ospedali di Gaza impossibilitati a funzionare, anche se Netanyahu dice di aver offerto carburante a un nosocomio, lo Shifa, ottenendone un rifiuto.
Il vertice di Riyad si è concluso con una condanna dell’operato di Israele ma anche con una sostanziale divisione tra l’Iran, che vuole cancellare i sionisti, e gli altri Paesi che, invece, si mantengono molto più prudenti. Qual è stato, in realtà, l’esito dell’incontro?
L’incontro aveva come obiettivo trovare un punto comune intorno al quale costruire un consenso tra i Paesi partecipanti, ma tale punto comune non è stato trovato. Al di là della condanna dell’operazione di Israele, che sta andando oltre la distruzione delle strutture militari, con un impatto tremendo sulla popolazione civile, i Paesi arabi sunniti hanno ancora come priorità quella di salvaguardare il processo innescato con gli Accordi di Abramo e la normalizzazione dei rapporti con Israele. Alcuni di loro, Egitto e Giordania, vogliono anche evitare che centinaia di migliaia, se non milioni di profughi si riversino sul loro territorio, con impatti deleteri a livello sociale e politico.
Ritorna il mai sopito scontro tra sciiti e sunniti?
È una divisione che c’era già prima, si sapeva. Raisi ha parlato di sionisti, una frazione molto particolare del panorama israeliano, ha fatto riferimento, cioè, a una categoria politica, non etnico-culturale: non ha parlato del popolo ebraico. Al di là di questo la divisione emersa a Riyad era già precedente. Nel mondo arabo sunnita non c’è nessuno che professa ancora la distruzione dei sionisti o dello Stato di Israele: lo fa l’Iran perché deve cavalcare la tigre dell’estremismo per ragioni interne e di opportunità. Gli Accordi di Abramo comportano intrinsecamente il rischio di isolare il fronte sciita. Non bisogna dimenticare che il primo conflitto non è quello tra mondo arabo e islamico con Israele, ma tra sciiti e sunniti.
Nasrallah, il capo di Hezbollah, minaccia azioni anche contro gli Usa se non riescono a frenare gli eccessi israeliani. Dall’altra parte Israele continua con le sue azioni in territorio libanese e il ministro della Difesa Gallant dice che il Libano potrebbe fare la stessa fine di Gaza. Schermaglie verbali o il segnale che siamo sempre più sul punto di un ampliamento del conflitto?
Le azioni degli israeliani sono preventive, servono a tenere il fronte teso ma non esplosivo. Israele non vuole l’allargamento del fronte di guerra e molto probabilmente Hezbollah neppure, altrimenti avrebbe già messo in atto qualche azione più massiccia. Nasrallah sa che lanciarsi in un conflitto con una situazione politica ed economica libanese estremamente fragile può essere un rischio enorme. Hezbollah deve ancora riprendersi dagli alti costi che ha dovuto sostenere per il suo coinvolgimento in Siria. Al momento, quindi, si tratta di uno scambio verbale che serve a Hezbollah per far vedere che ha un ruolo non di secondo piano. Nell’area, inoltre, ci sono due portaerei americane: non dobbiamo sottovalutare il potere della deterrenza statunitense.
Commentando una foto scattata in occasione di una conferenza stampa, il Jerusalem Post faceva notare come fisicamente Gallant e Gantz, che fanno parte del Governo, fossero da una parte e Netanyahu, che è il premier, dall’altra, sottintendendo divisioni nell’esecutivo israeliano. Una frattura che si sta ampliando?
Difficile dirlo: questo è un gabinetto di guerra, che procede secondo modalità diverse rispetto a un gabinetto di pace. Certo, c’è sempre una parte di gioco politico, anche perché l’estrema destra vede in questo conflitto la possibilità di un sorpasso definitivo rispetto a Netanyahu, per ottenere più consenso popolare.
Netanyahu è tornato a dire che l’ANP non dovrà avere parte nel governo di Gaza dopo la guerra. Per quanto riguarda il futuro della Palestina dagli israeliani non vengono dichiarazioni univoche. Cosa immaginano di realizzare una volta deposte le armi?
Gli israeliani, in questo momento, non hanno un piano concreto che vada oltre le operazioni militari per la neutralizzazione di Hamas: qualsiasi dichiarazione lascia il tempo che trova. Fa pensare il fatto che le parole di Netanyahu vadano un po’ contro quello che stanno cercando di fare gli Stati Uniti, che vorrebbero aumentare il ruolo dell’ANP a discapito di Hamas. Sarebbe un tentativo artificiale che poi deve reggere alla prova del popolo palestinese. Non è detto che venga accettata un’imposizione del tipo: “l’ANP vi deve governare anche a Gaza”. Anche perché c’è malcontento verso Fatah e ANP, parliamo di una realtà che viene accusata di essere un po’ troppo incline al compromesso e troppo chiusa nelle sue stanze.
Mohammed Dahlan, uno dei possibili successori di Abu Mazen, pensa che Hamas vada sconfitta politicamente. Altri nel mondo palestinese ritengono che vada tenuta in considerazione cercano di includerla nel processo politico, anche per gestirla. Che panorama abbiamo di fronte da questo punto di vista?
Il consenso di Hamas è stato costruito sul malcontento del popolo palestinese, soprattutto a Gaza: non possiamo dimenticare che è una realtà politica, oltre che militante e di lotta. Un consenso che è stato poi abilmente manipolato, perché non è che Hamas sia un campione della competizione democratica. Il territorio di Gaza è gestito anche con una chiusura totale nei confronti degli avversari. Non vedo però come possa essere inclusa in un processo più ampio di soluzione del problema palestinese: per statuto il suo obiettivo è la distruzione dello Stato di Israele.
Non c’è corrente né acqua, men che meno forniture mediche, tanto che le cure ai pazienti, compresi i neonati, son a forte rischio. È la situazione degli ospedali di Gaza, in particolare quella di Al Shifa. La struttura sanitaria più grande della Striscia è al collasso mentre le parti si scambiano accuse di strumentalizzazione. Gli israeliani hanno alternative all’attacco indiscriminato di spazi nei quali Hamas si fa scudo dei civili?
La strumentalizzazione c’è da parte di tutt’e due le parti. Militarmente Hamas è una realtà di gran lunga inferiore a quella dello Stato d’Israele. Le brigate di Hamas sono costituite da guerriglieri e la storia ci insegna che i guerriglieri non combattono uniformandosi alle regole della guerra del diritto internazionale. Il fatto che Hamas possa utilizzare determinate strutture sensibili come basi di appoggio non è da escludere. Ma il problema diventa la scelta israeliana.
Quali sono le opzioni per l’IDF?
Può decidere di colpire quelle installazioni che hanno un doppio uso, con il rischio di colpire la parte civile. La colpa addebitata a Israele è che nel calcolo della convenienza militare non si ponga a sufficienza questo problema. Secondo una certa interpretazione del diritto internazionale se una struttura viene utilizzata anche per scopi militari si è autorizzati a colpirla. Ma in questo caso le considerazioni giuridiche non bastano, ci sono anche quelle politiche: si imputa a Israele di dare priorità alla distruzione dell’obiettivo militare di Hamas rispetto ai danni collaterali, anche se molto alti. D’altra parte, che Hamas utilizzi quelle strutture è un segreto di Pulcinella; cerca di ripararsi dietro la popolazione civile.
È possibile intervenire in modo più chirurgico riducendo almeno il rischio di coinvolgimento dei civili?
Fino a un certo punto. Se ci sono strutture militari nel parcheggio sotterraneo di una scuola o di un ospedale, anche tirando il missile più preciso c’è il rischio che venga colpito un pilastro, che cada un’ala dell’edificio.
Israele potrebbe andare a combattere nei cunicoli approntati da Hamas sottoterra con il rischio di aumentare le sue perdite umane?
Prima o poi lo faranno, andranno lì sotto, come gli americani hanno fatto con i vietnamiti.
(Paolo Rossetti)
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