Un missile Houthi a lungo raggio è caduto l’altro giorno vicino alla città israeliana di Eilat, sul Mar Rosso, senza causare danni. Ma soprattutto senza essere avvistato, tracciato e distrutto dalle difese di Tel Aviv o da quelle imbarcate sulle navi americane, inglesi ed europee nell’area. Non ci sono particolari verificati sull’accaduto, ma NotizieGeopolitiche riporta di un video girato da una telecamera di sorveglianza che testimonierebbe l’arrivo dell’ordigno. L’agenzia Reuters informa che un portavoce degli Houthi ha detto di “aver preso di mira con missili una petroliera battente bandiera delle Isole Marshall, la Mado, nel Mar Rosso e sempre con missili da crociera la regione israeliana di Eilat”. E ieri l’esercito israeliano ha riferito che un “obiettivo aereo sospetto” era entrato dal Mar Rosso nello spazio aereo israeliano colpendo un’area aperta nella zona di Eilat.



Le forze israeliane stanno indagando sull’evidente falla nei loro sistemi di allarme e difesa aerea, in una zona che di fatto è il terzo fronte, quello a sud, nel conflitto contro il terrorismo filoiraniano, oltre a Gaza e Libano, che vede lo Stato ebraico bersaglio della mission distruttiva dei guerriglieri proxy iraniani: Hamas, Hezbollah e Houthi. Con l’inquietante sospetto che il missile su Eilat abbia evitato ogni intercettazione perché ipersonico, come quello che gli stessi Houthi avevano “testato” solo pochi giorni fa.



La guerra, dunque, ha raggiunto anche i 50mila abitanti dell’unica città israeliana sul Mar Rosso, quella a più alta vocazione turistica, dove “i resort e le barriere coralline sono il richiamo principale: Eilat tenta i visitatori con un sole che dura tutto l’anno, le spiagge sabbiose, le acque calde e la vita notturna completano il pacchetto, insieme a uno scenario desertico che si trova proprio oltre la costa affollata”, recita Tripadvisor. Oggi, ovviamente, di turisti neanche l’ombra, e l’economia di questo, come degli altri centri israeliani, è diventata un’economia di guerra. Ma non è una novità.



Noi siamo stati ad Eilat circa trent’anni fa, facendo scalo all’aeroporto Hozman, che nel 2019 fu chiuso quando entrò in funzione il nuovo polo, Eilat-Ramon, il più blindato del mondo, come si disse all’inaugurazione. Ma anche trent’anni fa l’atmosfera era tesa, se non di guerra quasi, ed anche allora si faceva snorkeling nelle acque trasparenti del Rosso con un occhio puntato all’altra parte dello stretto golfo, verso Aqaba, l’unico porto giordano. E tutti e due i porti, Eilat e Aqaba, vivevano (come oggi) dei transiti commerciali attraverso lo stretto di Tiran, tra Egitto e Arabia, un tratto di mare da sempre conteso (lo stesso che nel ’67 Nasser pensò improvvidamente di chiudere, mossa che fu azzerata dalla pesante sconfitta egiziana nella guerra dei Sei giorni).

Nei primi anni Novanta il confine tra Eilat e Aqaba era chiuso, e con la Giordania non erano momenti di distensione: risalendo il corso del Giordano si sfioravano alte recinzioni con cartelli che avvisavano della presenza di zone minate, tanto che il nostro pullman non si concedeva nessuna sosta fino all’arrivo a destinazione. Tensioni anche con Gaza: i giornalisti in visita dovevano cambiare auto (per via delle targhe: si doveva viaggiare su un veicolo con quelle “giuste”), ottenere un pass e subire furiose perquisizioni, sia all’andata che al ritorno. Ad Eilat, come del resto praticamente in buona parte dei territori israeliani, si viveva in un costante preallarme, in un’osmosi con i residenti che soffrivano di una sindrome diffusa d’accerchiamento. Col passare degli anni, la situazione era andata poi normalizzandosi, con la Giordania i rapporti erano diventati più distesi e con il mondo arabo in genere si stava lentamente arrivando ad una normalizzazione, anche attraverso gli accordi di Abramo, col Bahrein, Stati emiratini e Arabia siglati nel 2020.

Ma è proprio questa nuova concertazione geopolitica ad aver spinto l’eterno nemico, l’Iran, a muovere le sue legioni straniere (appunto Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza e Houthi nello Yemen) contro Israele e il suo alleato, il grande satana americano. Legioni evidentemente più che sacrificabili, anzi: nella folle logica estremista, più vittime significano anche più superstiti pronti ad abbracciare il terrorismo di matrice sciita. L’Iran non può permettere nessuna distensione nell’area, e vuole spingere altri Paesi musulmani ad affiancarsi nella mission: distruggere Israele.

“Tutti noi sappiamo quanto le minacce e le operazioni degli Houthi facciano parte di un disegno più vasto che vede purtroppo l’Iran impegnato in prima linea nel sostenere non soltanto gli Houthi ma anche Hamas e Hezbollah, nonché a rifornire di droni le operazioni russe in Ucraina”, ha detto l’altro giorno la premier Giorgia Meloni nelle sue comunicazioni in Senato. “Le conseguenze del conflitto tra Israele e Hamas si ripercuotono in modo diretto su tutto il Medio oriente e la nostra preoccupazione va anche a quanto sta avvenendo nel Mar Rosso”, ha aggiunto, ringraziando la Marina militare italiana e l’equipaggio della nave Duilio “impegnata in una missione dall’alto potenziale di rischio per assicurare la sicurezza e la libertà di navigazione alle nostre navi commerciali”.

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