Che l’organizzazione militare dei terroristi yemeniti Houthi non fosse affidabile e che sulla parola dei loro capi, capetti, portavoce e referenti zayditi dei partigiani di Dio (Anṣār Allāh) non si potesse contare, era risaputo. Adesso c’è la certezza. Sabato scorso almeno quattro missili lanciati dai fanatici hanno preso di mira la petroliera cinese Huang Pu, in navigazione nel Mar Rosso. Niente di nuovo: gli attacchi nella zona vanno avanti dallo scorso novembre, nonostante i raid delle forze angloamericane sugli obiettivi yemeniti più sensibili, come postazioni radar, batterie di lancio e centri di comando.



Ora però i missili sono piovuti su un trasporto cinese, a pochi giorni da un negoziato siglato proprio dagli Houthi con Cina e Russia per assicurare una sorta di lasciapassare alle navi dei due Paesi (sostenitori dell’Iran, e quindi transitivamente anche del movimento Houthi) nel Mar Rosso: obiettivi degli attacchi, dunque, non sarebbero dovuti essere i navigli russi e cinesi, ma solo quelli occidentali alleati di Israele, con le navi militari che li proteggono. Ed invece, come riferisce il comando militare statunitense CentCom, la nave Huang Pu, battente bandiera panamense e di proprietà cinese, è stata il bersaglio di quattro missili caduti vicino al suo serbatoio, e alla fine è stata colpita da un quinto, che ha causato un piccolo incendio, spento nel giro di mezz’ora, senza causare feriti o gravi danni. Ovviamente, la macchina della disinformazione s’è messa subito in moto, a coprire la falla: nessuna rivendicazione da parte Houthi e nessun commento dal governo di Pechino, mentre secondo il South China Morning Post la proprietà della nave da pochi giorni non sarebbe più cinese, ma di chissà chi altro.



Ma le idee confuse degli Houthi escono evidenti anche dalle parole di Mohammed Ali al Houthi, membro del loro consiglio politico di Sana’a. L’altro giorno, parlando all’emittente yemenita di proprietà degli Houthi Al Masirah, ha invitato i Paesi arabi a ridurre del 50 per cento l’esportazione di carburante verso Europa e Stati Uniti, esortandoli anche a non permettere l’invio di armi a Israele via aerea. Al Houthi ha aggiunto poi che “le forze yemenite si stanno adattando agli sviluppi sul campo e stanno seguendo un addestramento”, sottolineando che “gli USA non rimarranno la potenza globale dominante” e che “lo Yemen possiede armi in grado di arrivare al loro livello”. Ma quest’ultima non sembra essere, al momento, la questione fondamentale: le tensioni e il conflitto sul Mar Rosso non dipendono dalla qualità degli arsenali in campo, ovviamente asimmetrici. Solo il fatto che i navigli in transito possano essere bersagli per qualsiasi arma, potente o meno, precisa o meno, siano droni, barchini kamikaze, missili o fionde, basta da solo a rendere la rotta tra Golfo di Aden e Suez insicura, e quindi a costringere le logistiche a riprogrammarsi sulle rotte circumafricane, molto più lente e costose, in uno strangolamento dei mercati di mezzo mondo. Del resto, oltre alla mission fondamentale (la cancellazione dello Stato ebraico) dell’asse della resistenza islamica (tutti i proxy iraniani, quindi Hamas, Hezbollah e Houthi), insistono su altri obiettivi paralleli: la surroga delle supremazie occidentali, che passa non solo dalle motivazioni religiose, ma anche e forse soprattutto da quelle economiche.



Da qui l’incitamento di Al Houthi alla riduzione di approvvigionamento petrolifero. Un invito che però non ha studiato bene i conti. Il fatto è che l’OAPEC (l’organizzazione dei Paesi arabi esportatori di petrolio: Kuwait, Libia, Arabia Saudita, Algeria, Bahrain, Egitto, Iraq, Qatar, Siria, EAU, Tunisia), con sede in Kuwait, nel suo statuto riporta uno scopo fondamentale: separare la produzione di petrolio dalle vicende politiche. Business is business, insomma, e quindi è inutile spingere quei Paesi al karakiri. Fuori dal coro resta l’Iran, è vero, ma anche Teheran deve confrontarsi con i suoi bilanci: l’anno scorso ha esportato circa un milione di barili di greggio al giorno. Per quanto sostenga le sue legioni straniere con armi ed intelligence, è difficile voglia dimezzare i propri incassi.

E allora? A cosa fa appello Al Houthi? In realtà, sembra solo propaganda, buona per mantenere alto almeno il morale della popolazione, stremata dalla guerra decennale dei ribelli contro il governo legittimamente riconosciuto dall’Onu, ritiratosi ad Aden, e sostenuto da Arabia e Stati emiratini. Un conflitto che ha causato una delle peggiori crisi umanitarie al mondo: circa 400mila vittime e un numero imprecisato di sfollati, oltre ad una condizione generale di perenne carestia. Redattore sociale riporta che secondo la FAO “quasi 5 milioni di persone, ovvero il 45% della popolazione osservata nelle aree controllate dal governo dello Yemen, sono in crisi o peggio. Gli esperti evidenziano che il Paese fa affidamento sulle importazioni per il proprio fabbisogno alimentare e che quasi il 90% dei cereali proviene dall’estero. Se l’attuale escalation dovesse proseguire per i prossimi tre mesi, molto probabilmente le importazioni rallenteranno, influenzando la disponibilità di cibo e i prezzi sui mercati nazionali”.

Ma è purtroppo abbastanza chiaro a qualsiasi analista che tre mesi non saranno sufficienti, mentre per molti (come sostiene Scenari Economici, riportando l’opinione di Gary Anderson, ex capo della pianificazione della Forza di Spedizione del corpo dei marines, responsabile dell’area Indo-Pacifica) “la Marina degli Stati Uniti ha di fatto perso il controllo del Mar Rosso, perché l’attuale modo di fare la guerra americano, che prevede missili e droni lanciati da località remote, ha i suoi limiti e non viene a garantire il controllo del territorio. Ne dà solo l’illusione. La completa supremazia aerea non equivale alla vittoria a terra o in mare, non è controllo del territorio e quindi è inutile per sconfiggere una milizia che invece fa del controllo di un territorio ambientalmente ostile la propria forza”. Il ricordo del Vietnam è sempre un grande monito, ancora mai compreso del tutto.

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