La guerra in Medio Oriente fa un passo avanti e registra l’apertura ufficiale del suo quarto fronte, Yemen-Mar Rosso. In realtà, dopo Gaza, West Bank e sud Libano, i fronti erano già aumentati, a comprendere ampi tratti di Siria e Iraq, e probabilmente anche altri territori dove i terroristi islamici sciiti (tutti a guida remota iraniana) hanno trovato terreni fertili per le loro basi e le loro influenze.
Le posture adottate nell’area sono ormai più che evidenti: Iran telemanovratore nella sua guerra per procura (contro lo Stato ebraico, gli Usa “grande Satana” e i loro alleati), sempre poco propenso ad intervenire direttamente, almeno fino a quando avrà ottenuto il suo arsenale nucleare, conditio che ritiene indispensabile per sedersi al tavolo in una posizione di forza; Israele decisa ad estirpare la cronica minaccia di Hamas, senza lasciare pericolosi semilavorati nella Striscia che evolverebbero sicuramente in ulteriori attacchi; Arabia Saudita che resta al palo, congelando quella proto-intesa che aveva raggiunto a fatica con Israele più che altro per garantire una stabilità commerciale nel quadrante, e oggi assai poco intenzionata a riprendere un logorante conflitto con gli Houthi yemeniti, una guerra che dopo dieci anni ha visto i ribelli sciiti prendere il controllo di quasi tutto il Paese, capitale Sanaa compresa; Stati Uniti che ancora una volta si investono a garanti del mondo occidentale, con la responsabilità di assicurare il traffico verso Suez, neutralizzando gli ordigni sparati dagli Houthi e tentando di estirpare alle radici la minaccia. E l’Europa che partecipa all’azione americana sì, no, forse, in un bizantinismo che conferma l’inadeguatezza se non l’inesistenza di una linea comunitaria definita.
Per comprendere meglio la complicata situazione dell’area, servono alcune specifiche.
Yemen
Tutto iniziò nel 2011, con quella che eufemisticamente fu chiamata “la primavera araba”, quando s’era sperato in nuove ambizioni democratiche e nella rinascita sociale. Nel Paese (30 milioni di abitanti su 555 mila chilometri quadrati) a sud della penisola arabica, però, la primavera vide una rivolta che detronizzò il presidente di lunga data Ali Abdullah Saleh, e lo sostituì con il suo vice, Abdrabbuh Mansour Hadi. Le speranze si scontrarono con una pesante involuzione e con il confronto con le forze fedeli a Saleh, una conseguente crisi economica e una sostanziale povertà diffusa. Nel 2014, gli sciiti Houthi, definiti “i ribelli”, presero il controllo del nord del Paese, fino alla capitale Sanaa, esiliando il presidente Hadi. Un’enclave sciita dentro i confini della penisola wahabita costituiva una seria minaccia per il regno di Arabia. Nel 2015 i sauditi (con altri otto Paesi sunniti) iniziarono le manovre e i bombardamenti contro gli Houthi, e indirettamente contro i loro protettori e armaioli, gli iraniani. Ne seguirono anni di morte e distruzione, di crisi umanitaria infinita, di 20mila vittime civili, di 4,5 milioni di persone sfollate.
Oggi la carestia è dietro l’angolo, l’economia è implosa, e si rincorrono le accuse di gravi violazioni contro i bambini (come sostiene Save the Children: reclutamento, rapimento, violenza sessuale, negazione dell’accesso umanitario, attacchi a scuole e ospedali, uccisioni).
In questa situazione, e con aiuti iraniani mirati esclusivamente a rifornimenti di armi e logistica militare, gli Houthi hanno necessità di ribadire la loro mission anti-Israele-Usa-Occidente e di dimostrare alla popolazione e ai vicini di casa una certa potenza e una credibilità di cui tenere conto. Da qui i missili, i droni, i barchini armati contro i convogli navali, e non solo (come loro disinformano) contro i cargo diretti in Israele, ma contro qualsiasi obiettivo, civile o militare, a portata delle loro gittate. Una guerra per distogliere l’opinione pubblica yemenita dalle difficoltà domestiche, insomma, manovra che non manca mai di sortire effetto: l’altro giorno nella piazza centrale di Sanaa migliaia di persone per qualche ora hanno dimenticato la fame per inneggiare contro Israele, grande Satana, e i suoi alleati.
Mar Rosso
Dopo una trentina di attacchi Houthi, il commercio mondiale ha cominciato a risentire pesantemente dell’impossibilità di transitare in sicurezza nel mare che porta a Suez, e della conseguente e supercostosa necessità di allungare di almeno dieci giorni il viaggio per aggirare l’Africa. Al porto di Trieste non arrivano più container, quello di Venezia è semideserto, le Pmi denunciano le prime sofferenze, Tesla è costretta ad interrompere la produzione nello stabilimento di Berlino, dato il mancato arrivo della componentistica, e il prezzo del greggio sta schizzando all’insù.
L’ultimatum scandito dalla coalizione, però, non ha fatto desistere le manovre yemenite, e da qui si è arrivati alle due notti di fuoco. Tra giovedì e venerdì e tra venerdì e ieri Usa e Regno Unito hanno preso di mira vari obiettivi militari nello Yemen, attacchi che hanno coinvolto sia navi di superficie che sottomarini (che hanno lanciato missili e Tomahawk), prendendo di mira siti situati nel sud–ovest del Paese. All’attacco avrebbero partecipato anche aerei della RAF: quattro Eurofighter Typhoon FGR.4 (informa ItaMilRadar) sono decollati da RAF Akrotiri, Cipro, e sono stati riforniti in volo da almeno un Airbus KC.2. Per quanto riguarda gli aerei statunitensi nell’area, che sorvolavano il Mar Rosso, c’era sicuramente un Boeing RC-135W dell’USAF. Nei raid sono stati anche coinvolti almeno quindici aerei F/A-18/EA-18G della Marina degli Stati Uniti, lanciati dalla portaerei USS Eisenhower.
Alle azioni non hanno partecipato attivamente le unità francesi, spagnole e italiane dispiegate nell’area (l’Italia ha inviato due fregate lanciamissili, la Fasan, che però tra breve dovrebbe rientrare al porto-base, e la Martinengo, più attrezzata per il contrasto antiaereo). “L’Italia è stata informata in anticipo dagli Usa dell’attacco in Yemen – ha dichiarato il ministro degli Esteri, Tajani –, ma non avrebbe potuto intervenire perché la Costituzione impedisce azioni di guerra senza un voto del Parlamento”.
Nel frattempo l’Eeas (il servizio di azione esterna dell’Ue) ha presentato ai Paesi membri una proposta di missione nel Mar Rosso a difesa del commercio internazionale, che prevede l’utilizzo di almeno tre cacciatorpedinieri o fregate antiaeree per almeno un anno. Se ne dovrebbe discutere a Bruxelles entro gennaio, ma la missione, anche se subito approvata (e non è detto), potrebbe scattare non prima di qualche mese e appaiare, di fatto duplicandola, quella varata dagli Usa, la Prosperity Guardian. Un distinguo difficile da comprendere, se non nelle pieghe più fumose della diplomazia.
Iran
La nave spia Behshad, che è rimasta per circa due anni ancorata nel mezzo del Mar Rosso, è salpata l’altro giorno, dirigendosi apparentemente verso lo stretto di Bab el Mandeb e si troverebbe attualmente al largo di Al Hudaydah, una località costiera yemenita. Difficile la lettura della manovra iraniana: si potrebbe trattare di un richiamo in un porto sicuro di un’unità preziosa per tutti i sistemi elettronici di bordo, di fatto eliminando un possibile bersaglio (sono circolate notizie che davano il cargo sbandato di alcuni gradi, danneggiato forse da una mina, come accadde al suo predecessore, la nave Saviz, sabotata nel 2016 dagli israeliani); o, peggio, potrebbe essere un lasciare il campo libero per le manovre della fregata iraniana Alborz, anche questa dotata di sofisticati sistemi elettronici in grado di aiutare gli Houthi nella ricerca dei bersagli, ma anche in grado di difendersi o attaccare “in proprio” con missili antinave.
La metastasi
La mappa del Medio Oriente oggi è tinta sempre più di rosso, visto il contagio che prima le barbare incursioni di Hamas e poi le dure reazioni di Israele stanno propagando in tutta l’area. Non ci sono farmaci adatti: ad oggi la soluzione dei “due Stati” proposta dagli Usa per dirimere la questione palestinese sembra irrealizzabile e guardata con sospetto anche dai Paesi islamici più moderati. Tutti sanno che fino a quando la dispotica teocrazia iraniana manterrà i flussi di sostentamento per le sue legioni straniere i conflitti non cesseranno, al più potranno essere contenuti in un mix di trattative e prove di forza.
Il caos in tutta l’area sembra un’enorme guerra civile-religiosa, dove il primato delle armi vince su morti e carestie: si è identificato un nemico comune quale bersaglio al quale imputare ogni sofferenza, camuffando nell’interpretazione più fanatica dell’islamismo tutte le incapacità di amministrare i territori e le genti. Non se ne verrà a capo se non si arriverà ad una primavera araba vera, dove le popolazioni riconquisteranno finalmente il diritto di vivere in pace.
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