La US Navy non ha il dono dell’ubiquità. Lo scopriamo oggi, ma lo scopriremo ancora di più se alla Casa Bianca tornerà a sedersi Trump. Dopo otto mesi di presenza costante, la task-force USA Bataan Amphibious Ready Group (la portaelicotteri Bataan, la nave da sbarco portuale Carter Hall e la nave da trasporto anfibio Mesa Verde, con la 26esima Unità di spedizione marina imbarcata, circa 3mila uomini) ha lasciato il Mediterraneo in direzione Norfolk, in Virginia. Fino allo scorso dicembre il Bataan ARG aveva condotto esercitazioni e operazioni in altri quadranti, per poi schierarsi nel settore orientale del Mare Nostrum, “a sostegno della stabilità e della sicurezza marittima in difesa degli interessi degli Stati Uniti, degli alleati e dei partner”, più prosaicamente quale deterrente ad un’espansione del conflitto in corso a Gaza.



Un deterrente assolutamente proattivo, vista la possibilità di innescare missioni speciali operate dalle truppe imbarcate. Oggi quella minaccia resiste ancora, e chissà per quanto durerà, ma gli USA avevano anche pianificato per le prossime settimane manovre congiunte con le forze giapponesi in Estremo Oriente, altro quadrante complesso, dove serve contrastare l’espansionismo militare cinese. La dipartita del Bataan ARG segue l’addio della portaerei nucleare USS Gerald R.Ford, anche questa schierata nel Mediterraneo orientale dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, per “contribuire alla deterrenza regionale”, e rientrata negli USA per prossimi dispiegamenti.



Sembrerebbero normali avvicendamenti, dunque, se non fosse che è la prima volta da decenni che il fronte Sud d’Europa non vede la presenza di forze americane, rimanendo adesso affidato alle capacità delle marine militari domestiche, nella fattispecie francesi, turche (queste però con grandi incognite sulla loro postura nell’eventuale confronto con il mondo islamico), e italiane, che secondo l’ultimo ranking del World Directory of Military Modern Warships è 11esima tra le potenze navali globali del 2024 (quarta nel Mediterraneo, considerando anche la Royal Navy del Regno Unito, non esattamente UE, ma comunque già impegnata nel Mar Rosso). Il tutto mentre risulta che siano una decina le navi militari russe attualmente nel Mediterraneo, basate a Tartus in Siria, unico porto militare russo fuori dai confini.



Nel frattempo, proprio in questi giorni – forse non per caso –, nel Mediterraneo centrale si svolge l’annuale attività di addestramento NATO denominata “Dynamic Manta”, al largo delle coste orientali e meridionali della Sicilia: è un’esercitazione avanzata (sostiene ItaMilRadar) di guerra antisommergibile “volta a migliorare le capacità alleate di operare in modo integrato contro questa minaccia”. Sono coinvolti sette sottomarini delle marine militari di Italia, Francia, Grecia, Spagna, Stati Uniti e Turchia, in coordinamento con il Comando sottomarini della NATO e le unità di superficie. Inoltre è prevista la partecipazione di aerei da pattugliamento marittimo provenienti da Canada, Germania, Grecia, Regno Unito, Stati Uniti e Turchia. Tali attività sono svolte nell’ambito dell’Operazione Noble Shield, sotto la guida tattica del contrammiraglio Pasquale Esposito, comandante del Secondo gruppo navale permanente della NATO nel Mediterraneo. La Marina militare italiana partecipa con la fregata antisommergibile Carlo Margottini (F 592), il cacciatorpediniere Luigi Durand de la Penne (D 560), il pattugliatore polivalente d’altura Francesco Morosini (P 431), due sottomarini (tra cui Todaro, S 526) e due elicotteri di base presso l’Elicotteri di Catania. Questo nel Mediterraneo.

Nel Mar Rosso, invece, si sono registrate le prime tre vite spezzate dai missili Houthi: sono i tre marinai uccisi (altri quattro feriti) nell’attacco contro una nave greca portacontainer al largo dello Yemen, la True Confidence, una rinfusiera battente bandiera delle Barbados, salpata dalla Cina e diretta a Jeddah in Arabia e Aqabam in Giordania. L’equipaggio superstite ha abbandonato la nave, che adesso brucia alla deriva, ovviamente minacciando le altre imbarcazioni e le coste. Così come è successo alla Rubymar, anche questa centrata da missili Houthi, andata a fuoco e abbandonata dall’equipaggio, che l’aveva ancorata per evitare derive imprevedibili. Il cargo è poi affondato, ma proprio le sue ancore, trascinate dal peso, sono adesso indicate quali vere responsabili dei quattro cavi internet tranciati e finiti fuori uso. Difficile stabilire la verità dei fatti, così com’è difficile accettare la discolpa dei terroristi Houthi, che negano quel sabotaggio, risultato assai poco gradito anche ai loro protettori di Teheran.

Vero invece è che gli attacchi dallo Yemen si vanno intensificando, nonostante i raid di USA e UK contro obiettivi Houthi. Sembra che i ribelli siano i nuovi pirati dello stretto di Bab el-Mandeb, automuniti delle lettere di corsa che secondo il loro distorto modo di intendere li autorizzano a colpire qualsiasi cosa galleggi su quel tratto di mare che va dal Golfo di Aden fino alle coste arabe. Corsari che hanno imparato a scavarsi i rifugi e gli arsenali, che godono dei tracciamenti degli obiettivi forniti da supporti logistici iraniani, che sfruttano mimetizzazioni e mobilità per creare confusione e inefficienze negli attacchi angloamericani. Alcune fonti sostengono che abbiano anche rivelato pubblicamente un loro intento: chi vorrà transitare senza problemi nelle acque (internazionali) davanti alle loro coste dovrà chiedere permesso alla loro autorità, e magari pagarne un diritto. Un vero pizzo, che mette allo scoperto una volta di più come gli snodi fondamentali dei commerci e delle comunicazioni mondiali oggi siano troppo soggetti alle imprevedibilità delle popolazioni locali, vittime di miserie e delle propagande del fanatismo alimentato da remoto da chi sta portando avanti una multiguerra per procura, senza sporcarsi le mani. L’Iran.

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