Quando a metà anni Ottanta Ronald Reagan e Margaret Thatcher decisero che era giunto il momento di imprimere un’accelerazione alla crisi del sistema sovietico, convinsero il re saudita Fahd ad aumentare notevolmente la produzione del greggio in modo da provocarne un crollo del prezzo. Nel 1986 l’Arabia Saudita riversò sul mercato un mare di greggio, portando il prezzo da 30 a 10 dollari al barile. Una circostanza che produsse quello che è stato definito il terzo shock petrolifero, che aggravò la crisi della Russia sovietica, che necessitava di flussi ingenti di valuta estera per competere con la “Strategia del surclassamento tecnologico” americana, avviata con la realizzazione dello Scudo spaziale.



Il crollo dei prezzi ebbe, però, anche l’effetto indesiderato di mandare in bancarotta i produttori indipendenti americani, cosa che costrinse gli Usa a ricalibrare la propria strategia, minacciando di imporre pesanti dazi ai sauditi se non avessero contribuito a mantenere la produzione più stabile e i prezzi più alti, accantonando, così, la retorica liberista che aveva accompagnato le sue politiche economiche. Alla fine di questa crisi del petrolio fu evidente che per contrastare l’Unione Sovietica gli americani si erano legati in modo indissolubile alla monarchia saudita e l’avevano resa il perno della loro politica estera mediorientale, una strategia che durò fino alle due guerre del Golfo.



Questi fatti, che hanno plasmato in modo decisivo le vicende geopolitiche ed economiche degli ultimi trent’anni, sembrano ormai provenire da un’altra era geologica. Gli alleati di un tempo sono diventati rivali, mentre l’ordine mondiale è andato in frantumi. Ma, allora come oggi, il petrolio è uno degli elementi principali dell’equilibrio geopolitico: lo era trent’anni fa quando era il bene più prezioso e lo è adesso che si inizia a intravedere un mondo in cui non sarà più indispensabile come in passato.

Molte cose sono successe dagli anni Ottanta: l’affermazione del paradigma liberista e la progressiva finanziarizzazione dell’economia, ha avuto come corrispettivo nel settore energetico il conseguimento da parte degli Usa dello status di maggiori produttori ed esportatori di petrolio al mondo. La rivoluzione che ha seguito l’affermazione dello shale oil ha portato all’instabilità di questi giorni; dal 2014 gli Usa hanno aumentato in modo aggressivo la loro quota di mercato, portando la Russia e l’Arabia Saudita a formare un’alleanza informale: l’Opec Plus, chiamata così perché univa i produttori dell’Opec ai paesi che avevano deciso di non farne parte. Un’alleanza inconsueta, basata sulla riduzione della produzione del petrolio, che ha contribuito ad accrescere il peso della Russia sul teatro mediorientale, avviando una fase di riconfigurazione geopolitica in cui il progressivo disimpegno degli Usa e il fallimento delle Primavere arabe hanno fatto pensare a molti analisti che il nuovo ordine regionale sarebbe stato plasmato da Pechino e Mosca.



La guerra del petrolio ha mostrato come, in realtà, la partita geopolitica non era ancora chiusa e che la stabilizzazione della regione non poteva prescindere da un accordo sulla produzione del petrolio. La mancata intesa fra Russia e Arabia Saudita sulla riduzione della produzione di petrolio, registrata alla riunione dell’Opec Plus di Vienna del 6 marzo, ha visto il petrolio scendere sotto i 20 dollari al barile. Un crollo da connettere alla caduta della domanda globale, che ha seguito la diffusione della pandemia di coronavirus, ma che ha radici più profonde, che vanno rintracciate nella dinamica della transizione in atto, caratterizzata dal cambiamento del paradigma energetico, dalla riconfigurazione dell’assetto geopolitico e dal cambiamento del modello produttivo che seguirà il compimento della quarta rivoluzione industriale. Una trasformazione epocale, che non può non interessare le fonti energetiche che alimenteranno il mondo del futuro.

Non è un caso che tutte le tensioni in atto abbiano trovato nel Medio Oriente il campo su cui riversarsi, producendo l’instabilità che si è riverberata su tutto il sistema delle relazioni internazionali. Ma forse il sistema ha raggiunto un livello di entropia non più sostenibile. Come spiegare altrimenti il perché dell’accordo del 10 aprile che ha visto gli Usa affiancare Russia e Arabia Saudita nella decisione di tagliare la produzione di petrolio per stabilizzarne il prezzo. Un accordo che è figlio della debolezza dei contendenti, i quali in un quadro di incertezza sistemica avrebbero visto peggiorare la loro posizione. Gli Stati Uniti non potevano reggere ancora a lungo un ribasso sostenuto dei prezzi –  già sotto i 40 dollari al barile la produzione di shale oil si rivela non conveniente –, mentre la Russia, che con la vittoria nella guerra di Siria aveva costruito le precondizione per la nascita dell’Opec Plus, non ha la forza di diventare il perno del teatro mediorientale e il tentativo di legarsi all’Arabia Saudita – confermato dall’offerta fatta ai sauditi di vendere il sistema anti missili S-400 – è un’operazione che presenta troppe variabili e rischi.

I sauditi, dal canto loro, hanno giocato una partita molto spregiudicata. Causando il crollo dei prezzi del petrolio, hanno provato a mettere fuori gioco i loro concorrenti americani, provando a riprendersi le quote di mercato che i produttori di shale oil gli avevano tolto e al contempo acquistando a prezzi favorevoli le azioni delle compagnie petrolifere europee concorrenti. I sauditi hanno giocato d’anticipo sui loro rivali in modo da procedere nella realizzazione del progetto Vision 2030, con cui puntano a riconvertire la loro economia in modo da renderla meno dipendente dall’esportazione degli idrocarburi. Una strategia che è difficilmente separabile dal tentativo di riplasmare l’equilibrio geopolitico del Medio Oriente, in cui non può essere solo la Russia a dare le carte. Il tutto con la Cina sullo sfondo, che da grande importatore di petrolio poteva rivelarsi l’unica potenza a beneficiare del crollo dei prezzi.

Alla fine, però, è arrivato un accordo fra grandi potenze che hanno mostrato i muscoli nel tentativo di arrivare all’intesa in posizione di forza, ma che si basa sulla consapevolezza che senza una strategia condivisa sul medio e lungo periodo l’instabilità del sistema poteva raggiungere un livello non più contenibile.

L’accordo fra i paesi dell’Opec e la Russia, che dovrebbe portare a un taglio di 10 milioni di barili al giorno –  pari al 10% della produzione mondiale –, si è avvalso dell’atteggiamento costruttivo del presidente Trump, che dopo aver rischiato un clamoroso allineamento dei produttori del Texas a quelli dell’Opec Plus, si è dichiarato disponibile alla possibilità che gli Usa si facessero carico di parte dei tagli che avrebbe dovuto fare il Messico, dando così un deciso contributo al raggiungimento dell’intesa.

I prossimi anni ci diranno se l’accordo raggiunto il 10 aprile sarà un passo importante verso il raggiungimento di un nuovo ordine internazionale, basato su una strategia condivisa sul prezzo del petrolio, ma sono molte le nubi che si addensano all’orizzonte e sono in tanti con Goldman Sachs a scommettere sul fatto che i prezzi sono destinati a scendere sotto la soglia fatale dei 20 dollari al barile.

Al momento, però, sembra chiaro che senza una gestione condivisa della transizione in atto – in cui si registra, al contempo, il crollo della domanda globale e la debolezza dei produttori di petrolio – le conseguenze per il Medio Oriente e l’economia globale potrebbero essere catastrofiche.