I missili lanciati sui cieli di Kiev durante la visita del Segretario generale dell’Onu rappresentano l’eloquente risposta di Vladimir Putin alla prospettiva di una soluzione della crisi ucraina nell’ambito delle attuali relazioni internazionali, così come hanno preso forma dal ’45 in poi. Ma occorre risalire ai bombardamenti fascisti sull’Etiopia in spregio alla Società delle Nazioni per rivedere altrettanta sfiducia (e disprezzo) per una mediazione internazionale di quel livello. 



In questo contesto gli Usa rispolverano la dottrina Roosevelt. Finisce nel cassetto quella di Barack Obama, cioè orientare le scelte dell’Occidente restando nelle retrovie, si passa alla riedizione dello slogan coniato nel 1940 dal presidente Franklin Delano Roosevelt: “L’America sarà l’Arsenale della democrazia”, mettendo a disposizione dell’Ucraina (e non solo) la forza economica e finanziaria della superpotenza, ovvero tutto quel che occorre per vincere salvo calzare “the boots on the ground”, ovvero l’esercito. In cifre, un pacchetto da 33 miliardi di aiuti; in buona parte da investire in artiglieria pesante, droni, munizioni, missili anticarro e antiaereo all’esercito di Zelensky che, di suo, fa sapere che lo sforzo sostenuto per opporsi alle armate di Putin comporta un costo vivo di 5 miliardi di dollari al mese. Poche cifre che bastano a capire che i duellanti si stanno attrezzando per un confronto di lunga durata.



Ma questo calcolo rappresenta solo una frazione dell’immensa distruzione imposta dal rovinoso braccio di ferro ai danni del pianeta. Dalla Seconda guerra mondiale nessuno scontro regionale, dalla guerra in Corea a quella in Vietnam, da quella in Iraq a quella in Siria, ha avuto un impatto così rilevante sulla crescita mondiale, l’inflazione, il commercio e così via. A un primo sommario calcolo si può quantificare in un triliardo di dollari la perdita del Pil mondiale nei prossimi due anni. Una cifra immensa, più o meno la metà della ricchezza prodotta dall’Italia in un anno di lavoro. Una cicatrice destinata a restare incisa nella carne dei popoli che subiranno quest’enorme ingiustizia. 



Oltre agli ucraini, saranno i russi a subire per un buon quarto del totale il costo delle sanzioni e dell’embargo che minaccia di far arretrare la struttura produttiva del Paese, fortemente debitrice verso Ovest in materia di componenti e di tecnologie. Ma anche l’Europa pagherà un alto prezzo, più o meno lo stesso, tra mancato export, maggiori costi dell’energia, calo dei commerci e della libera circolazione delle persone. Il resto, infine, ricadrà sulle spalle delle altre economie: gli Usa, probabilmente, potranno limitare i danni, vista l’indipendenza energetica del Paese, pochi ne trarranno addirittura un beneficio (Argentina, Brasile, Australia). Ma una parte rilevante degli Emergenti, tra cui i 27 Paesi africani che importano almeno il 50% dei cereali da Russia ed Ucraina, rischia sommosse sociali per ora non quantificabili. 

Poche cifre bastano così a inquadrare il peggior disastro da 75 anni a questa parte. L’unica consolazione è che, di fronte all’enormità delle devastazioni, s’imporrà presto una qualche forma di pace, perché Putin, che ha necessità di rivendicare uno straccio di vittoria almeno simbolica, non può consentirsi una guerra a oltranza. Entro l’anno, insomma, dovremo di nuovo sfogliare i libri di storia per rinfrescare la memoria su quel che scrisse John Maynard Keynes a proposito delle “Conseguenze economiche della pace”. 

In questo momento, quando cantano le armi, si alzano le barriere commerciali e si fanno saltare i ponti per fermare le truppe nemiche, è il caso di cominciare a pensare ai “ponti del dopo”, quando sarà necessario ricostruire. Non è difficile prevedere il rischio di un mondo spaccato in due, Occidente contro la coppia Cina/Russia, o l’affermarsi di una globalizzazione a metà, racchiusa in aree sociopolitiche omogenee. Ma può anche essere l’occasione per ripartire con la volontà di sconfiggere la stagnazione che affligge il pianeta mettendo a frutto le “munizioni” buone, cioè le risorse per affrontare le emergenze climatiche e sociali prossime venture. 

Chissà, una volta tanto potrebbe prevalere il buonsenso.

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