Il Fondo monetario internazionale stima che, a causa anche della guerra in Ucraina, il Pil mondiale quest’anno salirà del 3,6% anziché del 4,4% inizialmente previsto. Le previsioni della Banca Mondiale, invece, sono state tagliate dal 4,1% al 3,2%. Considerando, però, che la Cina nel primo trimestre è cresciuta del 4,8% superando le attese del 4,4%, e che gli Stati Uniti, come ha detto il direttore del Consiglio economico nazionale Brian Deese, sono “meglio posizionati di ogni altro Paese al mondo per un periodo molto difficile”, buona parte di quel calo di crescita potrebbe riguardare l’Europa. Come spiega Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, «il contesto è certamente diversificato sia sul piano strutturale che, soprattutto, geopolitico. Nonostante la guerra, la dinamica economica rimane positiva sia per la Cina che per gli Stati Uniti, mentre in Europa c’è una decelerazione che in Italia potrebbe essere in parte bilanciata da una stagione che per il turismo si preannuncia favorevole, anche se non fino al punto di compensare la frenata che abbiamo subito nel primo trimestre. Ci troviamo in ogni caso in una situazione un po’ strana».
Perché?
Perché in Europa, guardando soprattutto ai rendimenti dei titoli di stato, sembra che risentiamo più della politica monetaria della Fed che non di quella della Bce. Negli Stati Uniti è stato avviato un aumento dei tassi molto netto, con rendimenti reali dei titoli che su alcune scadenze sono diventati positivi, e non è da escludere che la dinamica inflazionistica abbia toccato il picco negli Usa.
E in Europa?
Man mano che passano i mesi ci confrontiamo con un periodo dello scorso anno nel quale i prezzi energetici avevano cominciato a salire, mentre ora parrebbe che, soprattutto per quel che riguarda il petrolio, si siano stabilizzati, seppur su livelli elevati. Può darsi che anche da noi tra non molto si raggiunga un picco. Resta il fatto che l’economia americana va bene, non ci sono nubi all’orizzonte da qui alla fine dell’anno, mentre in Europa abbiamo una situazione in cui si vede un solo elemento positivo: un euro più debole che potrebbe rappresentare una valvola di sfogo per l’export. Anche se temo che non basti, anche perché va ricordato che il petrolio lo paghiamo in dollari. Abbiamo quindi una situazione che continua a essere favorevole per la Cina, salvo imprevisti pandemici, e gli Usa.
Se risentiamo della politica monetaria della Fed, perché la Bce non prende una decisione in senso opposto?
Mentre la Fed ha già iniziato a rialzare i tassi, la Bce sta guadagnando tempo, anche perché i tassi reali in Europa sono ancora negativi. Potrebbe essere una politica adeguata, nel senso che da qui all’autunno la situazione potrebbe stabilizzarsi in direzione più favorevole.
In che modo?
Una parte dell’inflazione che stiamo vedendo ora è dovuta anche al fatto che qualche mese dopo lo scoppio della pandemia abbiamo avuto un rimbalzo significativo della domanda di beni durevoli, che ha portato anche a un forte aumento dei noli delle navi portacontainer, il cui costo si sta ora stabilizzando. Potrebbe essere che si sia raggiunto un massimo e quindi non ci sia spinta inflazionistica su questo fronte. La Bce, quindi, guadagnando tempo, potrebbe trovarsi in un contesto con minore pressione inflazionistica e ciò le consentirebbe di effettuare la manovra di rialzo dei tassi, che prima o poi ci sarà, in un modo meno robusto rispetto a quanto visto negli Stati Uniti.
In Europa c’è contezza della situazione di debolezza economica rispetto a Cina e Usa di cui ha parlato? Perché non si adottano provvedimenti per contrastarla?
Bisognerà dare un nome a quello che sta succedendo: forse si potrà parlare di sindrome del pesce rosso, perché sembra sia bastato poco per dimenticarsi dell’effetto veramente negativo sull’attività economica di dieci anni di austerity. Se ci si è dimenticati dei danni delle politiche dell’ultimo decennio il rischio è che effettivamente non si faccia nulla per stimolare l’economia in questo frangente.
(Lorenzo Torrisi)
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