Le previsioni economiche diffuse dal Fondo monetario internazionale non sono certo entusiasmanti per l’Europa, visto che, come evidenzia Marco Fortis, «per i tre principali Paesi dell’Eurozona non superano il 3% e, nel caso di Italia e Francia, il risultato finale è frutto principalmente della crescita acquisita ereditata dal 2021». Il direttore della Fondazione Edison invita però a una certa prudenza nel guardare a queste stime, «perché il loro spettro è così ampio che risultano essere utili fino a un certo punto. La domanda cruciale da farsi non è come andrà l’economia di questi Paesi nel 2022, ma piuttosto quando finirà la guerra».
Perché questa è la domanda cruciale da porsi?
Perché a seconda dell’ipotesi sulla data della fine del conflitto si possono immaginare previsioni che vanno dalle più pessimistiche, con la guerra che continua anche nel 2023, a quelle con un rimbalzo vigoroso per l’avvio in 1-2 mesi di un negoziato tra le parti in grado di salvare la seconda parte dell’anno. Siamo tra l’altro in una situazione in cui, guardando alla sola Italia, l’economia sta trasmettendo anche segnali contraddittori e non del tutto in linea con quelli dei previsori.
A quali segnali fa riferimento?
Per esempio, non sappiamo ancora come si sia chiuso il primo trimestre, ma la produzione industriale a febbraio ha registrato una crescita su base mensile del 4%, andando ben oltre le stime di Confindustria (+1%). Questo non basta tuttavia, anche se marzo si fosse chiuso con un lieve rialzo, a salvare il trimestre, pregiudicato da un gennaio anomalo in cui le imprese, soprattutto quelle energivore, hanno riaperto a metà mese dopo le feste. Non sappiamo poi come siano andati i servizi, ma in questi giorni di Pasqua (stiamo quindi parlando del secondo trimestre) molti italiani si sono messi in viaggio, forse in misura maggiore rispetto alle attese. Dunque, più che a previsioni siamo di fronte a scenari. E in questa situazione sarebbe importante un passo dell’Europa.
In quale direzione?
Nel riuscire a essere incisiva nel favorire un negoziato. Gli ucraini cercano aiuto per resistere il più a lungo possibile, mentre i russi cercano di ottenere il massimo risultato prima di sedersi al tavolo delle trattative. Mi sembra però che l’Europa sia totalmente assente, mentre potrebbe cercare di ritagliarsi un ruolo importante che, come detto prima, aiuterebbe anche la propria economia. Vedremo se Macron, in caso di vittoria alle presidenziali, potrà contribuire a una maggior incisività dell’Ue su questo piano. In ogni caso resto convinto di una cosa.
Quale?
Che l’economia italiana sia molto solida in questo momento. Il dato sulla produzione industriale di febbraio ci dice che la manifattura, pur colpita dal prezzo dell’energia e delle materie prime, è viva. Molte imprese con cui sono in contatto mi hanno detto di aver registrato un record di fatturato a febbraio o a marzo. Mi hanno anche riferito che i margini sono sì risicati, ma superiori comunque a quelli dei competitor stranieri. Queste imprese stanno quindi riuscendo a guadagnare quote di mercato. Quella italiana non mi sembra un’economia agonizzante: è sotto pressione, ma non ha perso tutti i punti di forza che aveva consolidato nel 2021. Ora è in attesa di sapere che scenario geopolitico e di guerra si profilerà nei prossimi mesi.
Sarà importante capire anche se ci saranno ulteriori sanzioni contro la Russia…
Mi sembra che le dichiarazioni sulle sanzioni rappresentino più una minaccia in attesa anche di capire come evolverà la situazione. La fine delle ostilità può veramente cambiare le prospettive su inflazione e crescita del secondo semestre dell’anno. E poi l’Ucraina, al momento della ricostruzione, si rivolgerà ai Paesi europei.
Nel frattempo l’export, che a febbraio è cresciuto, grazie all’euro in calo rispetto al dollaro può essere d’aiuto per la nostra economia?
Certo, tra le imprese che hanno registrato il record di fatturato in questi mesi molte stanno aumentando quantità esportate e quote di mercato senza preoccuparsi troppo dei margini ristretti. Anche perché non va dimenticato che molti di questi esportatori dinamici sono imprese fortemente patrimonalizzate e senza debiti, che possono quindi sopportare un periodo di magra, sottraendo nel frattempo quote di mercato ai concorrenti. Ci sono tanti settori dove il costo delle materie prime e dell’energia impatta poco e non ci sono le criticità presenti, per esempio, per quel che riguarda piastrelle e ceramiche o vino. È un momento in cui purtroppo non c’è alternativa allo stare in apnea. Ne usciranno le imprese più forti.
Se il Pil italiano crescerà meno di quanto previsto dal Governo si creeranno problemi anche sul fronte dei conti pubblici. L’Europa non potrebbe trasmettere un messaggio chiaro sul fatto che le regole del Patto di stabilità, di fronte alla guerra in corso, resteranno ancora sospese?
Non credo ora possa sbilanciarsi fino a questo punto, ma non mi sembra nemmeno ci siano velleità in senso opposto. Bisognerebbe semmai evidenziare che i debiti pubblici non sono un problema, anche se elevati rispetto al Pil, purché ci sia il risparmio privato. Tra l’altro, considerando il debito pubblico finanziato da stranieri su Pil, l’Italia, con il 46,3%, è all’ottavo posto in Europa, dietro a Cipro (99,4%), Portogallo (66,2%), Belgio (63,1%), Francia (55,9%), Austria (53%), Spagna (52,7%) e Slovenia (47%). In Italia più del 100% di debito/Pil è quindi sostenuto dalla ricchezza finanziaria interna. E sarebbe certamente insensato, come qualcuno ha paventato, usare questa ricchezza come base imponibile per una patrimoniale finalizzata ad abbattere il debito.
(Lorenzo Torrisi)
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